Quale Stato su quale terra per quali cittadini?

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admin | September 18th, 2011 – 8:50 am

Venerdì scorso Mahmoud Abbas ha fatto un discorso alla tv per comunicare ai palestinesi la decisione sulla richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina all’Onu. Richiesta piena, questo il messaggio di Abu Mazen, rivolto soprattutto a Israele e agli Stati Uniti, che si troveranno abbastanza isolati al Palazzo di Vetro. Costruire uno Stato, poi, sarà tutta un’altra cosa, e gli interrogativi sulla capacità di visione della leadership dell’ANP se li pongono gli stessi palestinesi. Questa è l’analisi che ho scritto per il Fatto online. La foto, da twitpic, ritrae un bambino palestinese che lancia sassi contro i bulldozer e i blindati israeliani nel paesino cisgiordano di Nabi Saleh, vicino Ramallah, teatro di manifestazioni continue da anni contro il controllo della sorgente d’acqua del paese da parte dei coloni israeliani.

Mahmoud Abbas non ha  fatto quel passo indietro che da mesi gli chiedono con insistenza gli  Stati Uniti. Né quel mezzo passo indietro che fino a ieri gli ha chiesto  l’Unione Europea, inviando in Medio Oriente – per tentare di  convincerlo – anche Mrs. PESC Catherine Ashton. Il presidente  dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), questa volta però nella veste  di capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp),  ha confermato oggi in un atteso discorso tenuto a Ramallah che chiederà  all’Onu per la Palestina un seggio di “membro a pieno titolo”. Niente di  meno del riconoscimento pieno di uno Stato sui confini del giugno 1967,  prima dell’occupazione da parte di Israele, composto dall’intera  Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme est, la capitale.

La sfida continua, dunque, e la settimana prossima si annuncia di  conseguenza una delle più delicate della cronaca mediorientale di questi  anni già complessi. E’ una sfida singolare, quella della richiesta del  riconoscimento dello Stato di Palestina. Nata come un ballon d’essai,  nell’entourage dei dirigenti dell’Olp, verso lo scorso autunno. E poi  pian piano lievitata sino ad assumere i contorni di una mossa tanto  importante, nel confronto ultrasessantennale tra israeliani e  palestinesi, da poter cambiare persino le carte sulla tavola dei  negoziati. È fuor di dubbio, la richiesta di riconoscimento dello Stato è  – dal punto di vista diplomatico – la mossa più importante da parte  palestinese, dai tempi dell’apertura di Yasser Arafat che spianò la  strada, dopo qualche anno, agli accordi di Oslo. E rimane una mossa  importantissima, anche se ai palestinesi manca – in questa infinita  transizione post-Arafat – la visione strategica.

C’è chi ha parlato di una mossa alla David Ben Gurion, come fu quella  perseguita nel 1947 per il riconoscimento di Israele. Il riconoscimento  internazionale di uno Stato e di uno status, per poi arrivare alla sua  vera attuazione. Il problema – serissimo – è che la casa palestinese è  divisa, e che Fatah e Hamas non hanno sanato la loro frattura pur avendo  firmato, lo scorso 4 maggio, la riconciliazione formale. Deboli  entrambi, nel consenso interno e nelle definizioni delle rispettive  strategie, i due movimenti hanno lasciato il campo all’Organizzazione  per la Liberazione della Palestina, in attesa di giorni migliori e delle  conseguenze del dibattito all’Onu. E l’OLP, dal canto suo, dovrà  gestire alle Nazioni Unite una sfida imponente, senza aver compiuto  quella riforma necessaria che i palestinesi attendono da anni e che ha  reso più fragile la stessa istituzione.

Nodi interni irrisolti a parte, a venire in soccorso ai palestinesi sono  due evenienze della Storia. La tempesta delle rivoluzioni arabe che,  loro sì, hanno rimescolato definitivamente le carte della regione e  hanno compattato tutti, dagli arabi alla Turchia neo-ottomano di Recep  Tayyip Erdogan. E l’arroccamento di Israele su posizioni dure, quelle  condotte dal governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu, e  sostenuto dalla potente lobby dei coloni, sul piede di guerra in attesa  del voto dell’Onu. La chiusura totale di Tel Aviv, ammorbidita nei toni  solo nelle ultime ore, ha giocato involontariamente a favore del  riconoscimento da parte delle Nazioni unite, compattando attorno alla  richiesta dell’Olp i due terzi dei voti in Assemblea generale e  isolando, nella sostanza, gli Stati Uniti che porrà il veto in Consiglio  di sicurezza.

Comunque vada a finire, la questione del riconoscimento dello Stato di  Palestina è un fatto che non potrà più esser messo di nuovo nel  cassetto. Né dai palestinesi, che forse ancora non si rendono del tutto  conto di quello che dovranno fare dopo, per aderire alle convenzioni  internazionali e per diventare uno Stato a tutti gli effetti. Né dagli  altri, Israele in primis, che si troverà di fronte un soggetto  istituzionale formalmente alla pari. Sembra, in sostanza, la fine della  ‘condizione speciale’, dell’entità istituzionale che non è Stato ma è  comunque qualcosa di reale. E pone, allo stesso tempo, anche quella  domanda che i palestinesi stessi si sono ancora guardati dal porre: se  la Palestina sarà uno Stato, chi saranno i suoi cittadini? Solo gli  abitanti di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, o anche tutti quei  palestinesi – in prima fila i rifugiati – sino ad ora rappresentati  dall’Olp? La partita che comincerà al Palazzo di vetro, la prossima  settimana, è solo la prima di una lunga serie, ma ha già cambiato parte  del vocabolario di un processo di pace in coma da anni. E ne cambierà,  molto probabilmente, anche gli stessi punti all’ordine del giorno.

http://invisiblearabs.com/?p=3507

 

 

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