24 LUGLIO 2013 – 9:32
Slow news di Ugo Tramballi
“Non gli hanno ancora detto che la soluzione dei due Stati è morta: morta e sepolta. Non esisterà mai uno Stato palestinese. E poi ci viene anche a dire che stiamo occupando la nostra stessa terra: come possiamo occupare qualcosa che è nostro?”, sosteneva Danny Dayan, colono ideologico ed ex presidente di Yesha, l’organizzazione degli insediamenti ebraici.
Barack Obama aveva appena parlato a Gerusalemme, la primavera scorsa. Premettendo che gli Stati Uniti garantiranno sempre e con ogni mezzo la sicurezza di Israele, il presidente invitava a tornare al dialogo per arrivare alla soluzione dei “due Stati per due popoli”. Agli israeliani chiedeva di mettersi nei panni dei palestinesi: immaginatevi cosa significa vivere quotidianamente sotto occupazione, era il senso della sua esortazione.
Dayan che non è nemmeno il più estremista dei coloni, era troppo arrogante e sicuro dell’impunità della sua parte, per ascoltare Obama e vestire, nemmeno per un secondo, gli abiti degli occupati. Per Dayan, per i coloni, per un numero crescente di deputati che li sostengono, il problema semplicemente non esiste. La terra è loro perché lo dice Dio.
Noi in Occidente, i senatori e i deputati al Campidoglio di Washington, i nostri governi e i nostri giornali, come reagiremmo se dei musulmani dicessero che occupano un territorio di altri, solo perché lo dice il Corano? Di quale integralismo religioso, di quale “fascio-islamismo” li accuseremmo? E se un governo arabo metodicamente li sostenesse da decenni con leggi, agevolazioni fiscali, mutui a tasso zero, protezione economica e militare, come lo tratteremmo? Dentro quale rete di sanzioni lo strangoleremmo?
E’ giusto contestualizzare il problema: il dibattito politico democratico in Israele, il contesto regionale ostile, le responsabilità palestinesi del perdurare dell’occupazione. Ma dal suo inizio il movimento dei coloni ha avuto gravi connivenze governative – da destra e da sinistra – e soprattutto in questi ultimi anni, è diventata la lobby più forte e pericolosa per la democrazia israeliana. Più rubavano terre di altri, più i loro giovani nazional-religiosi conquistavano posizioni importanti nei gradi intermedi delle forze armate, più vincevano seggi nella Knesset e dicasteri di governo, più Israele veniva isolata dal resto del mondo civile.
Il movimento dei coloni è ormai un mostro che, se non fermato in tempo, ucciderà la democrazia israeliana. Dayan e i suoi sanno perfettamente quello che stanno creando: un altro Sudafrica bianco con una larga minoranza non ebraica che un giorno diventerà maggioranza, trasformata in cittadini senza diritti o deportata. A loro, i coloni, non importa: sono convinti che Dio, gli Stati Uniti o entrambi non si opporranno mai, che la loro impunità è a prova di Storia.
Invece l’Unione Europea ha stabilito che dal primo gennaio tutti i contratti economici, commerciali, culturali, scientifici, tecnologici con Israele, avranno una “clausola territoriale” obbligatoria: non varranno in Cisgiordania, sul Golan e a Gerusalemme Est, tutti territori occupati. Non solo: quel che sarà prodotto nelle colonie non potrà essere etichettato “made in Israel”. Due marchi importanti, per esempio: le creme Ahava del Mar Morto o i gloriosi vini Yarden del Golan non potranno più essere esportati in Europa.
Non è un boicottaggio a Israele, con il quale restano in essere tutti gli accordi e i privilegi commerciali, ma a un’occupazione che pensava di godere un’impunità assoluta. Gli stessi 28 Paesi che hanno votato compatti per la “clausola territoriale” (“Europa antisemita!”, già gridano i soliti) pochi giorni dopo, con la stessa compattezza, hanno votato per inserire l’ala militare di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche. Come chiedeva Israele.
Proprio perché noi europei conserviamo un debito storico inestinguibile verso il popolo ebraico, abbiamo il dovere di contribuire a garantire la sicurezza di Israele: a rafforzarne la democrazia, a cercare una soluzione di pace.
Il compito degli americani è premere sulla trattativa politica: lontano dai sorrisi delle conferenze stampa, John Kerry ha usato maniere forti per spingere Bibi Netanyahu a tornare al negoziato. In attesa di fondare una politica estera comune, il compito di noi europei è la pressione economica.
Riguardo a import ed export, l’Europa è molto più importante per Israele di quanto loro non lo siano per noi. Tuttavia gli scambi con quel Paese sono per noi moralmente più importanti di qualsiasi altro accordo al mondo. Per questo vogliamo che siano rapporti non inquinati dal cancro dei coloni.
Allego, come “lettura da spiaggia”, i due articoli usciti in questi giorni su “Il Sole-24 Ore”, dedicati alla ripresa del negoziato di pace imposto dagli Stati Uniti, e alle iniziative dell’Unione Europea.
di Ugo Tramballi
Non sono molti nel mondo gli obiettivi che l’amministrazione Obama può sperare di raggiungere entro la fine del suo tempo, per guadagnare meriti internazionali. Il deludente bilancio in quasi cinque anni di presidenza potrebbe diventare eroico se conquistasse il Santo Graal: la pace o quanto meno un compromesso definitivo fra Israele e Palestina, sul quale hanno seriamente lavorato, fallendo, almeno cinque predecessori di Barack Obama.
E’ l’impresa che sta ora cercando di compiere John Kerry, il segretario di Stato al quarto viaggio in due mesi nella regione. I suoi predecessori che hanno consumato ore di volo, energie e pazienza sul più antico dei conflitti della Storia contemporanea, sono almeno otto. Da più di due anni la trattativa è congelata e prima che si fermasse, era comunque arrivata a un punto morto. Numeri e caduti che consiglierebbero la stessa cautela di Hillary Clinton: dopo aver tastato il terreno, trovandolo ostile, aveva rinunciato al tentativo, cercando un successo scontato in Birmania. Circondato da un entusiasmo pari allo zero nella sua stessa amministrazione, Kerry sta ottenendo risultati miracolosi. La ripresa del negoziato sembra ormai essere questione di giorni. Forse anche oggi. Israeliani e palestinesi erano finiti nelle paludi diplomatiche che loro stessi avevano creato, cercando d’imporre condizioni su condizioni. I palestinesi pretendevano che gli israeliani congelassero la costruzione in ogni insediamento nei Territori occupati; gli israeliani pretendevano non ci fossero condizioni, imponendone invece più dei palestinesi: riconoscimento della “natura ebraica” dello stato d’Israele, no al congelamento delle colonie, no alle vecchie frontiere del 1967 come base del negoziato territoriale.
Questa pioggia di no dell’una e dell’altra parte, rimane. Ma da precondizione, diventano parte del negoziato. Sembra ovvio ma in questa storia anche la banalità richiede tempo e diplomazia. Il compromesso che ha costruito John Kerry è geniale appunto perché banale: nel senso che prende atto dei no e contemporaneamente li ignora. Israele non intende partire dai confini del ’67, non vuole congelare gli insediamenti né liberare i prigionieri politici palestinesi nelle sue prigioni e ancor meno rinunciare all’ebraicità del suo Stato. I palestinesi affermano l’esatto contrario su tutto. Ma gli uni e gli altri saranno attorno al tavolo a discuterne.
Di queste cose ovviamente discuteranno e se le cose andranno bene, finiranno così: la base della trattativa territoriale saranno le frontiere del ’67 ma Israele annetterà i tre grandi blocchi di insediamenti (l’80% delle colonie e dei coloni), dando ai palestinesi altri territori meno fertili e senza acqua. I palestinesi riconosceranno la peculiarità ebraica di Israele: si dovranno trovare parole e definizioni perché questo non comprometta i diritti del 20% non ebreo della popolazione israeliana. I prigionieri palestinesi saranno liberati, ma non tutti.
La trattativa è molto più ampia e complessa: riguarda anche Gerusalemme, la valle del Giordano, l’acqua, la sicurezza di Israele , l’economia e la funzionalità di uno Stato palestinese. Ma la trattativa doveva riprendere: era diventata necessaria per Bibi Netanyahu e per Abu Mazen, mentre attorno a loro e all’America, esplode il Medio Oriente. Come è stato in fondo facile farlo riprendere, fingendo che dei no siano dei si, sarà facilissimo bloccarla di nuovo. Da parte palestinese c’è Hamas: la caduta dei Fratelli musulmani al Cairo richiude il movimento islamico nella sua gabbia di Gaza. Di solito l’isolamento li rende aggressivi. Come tutti i premier d’Israele, gli oppositori a un Stato palestinese Bibi Netanyahu li ha al governo con lui: le destre nazional-religiose e il Likud, il suo stesso partito, passato sotto il controllo degli estremisti. Richiamati i rissosi nemici al negoziato, il Santo Graal che Kerry vuole raggiungere resta sempre molto lontano.
di Ugo Tramballi
“Chi mai al mondo è ancora interessato al conflitto fra israeliani e palestinesi?”. Se lo chiedevano in molti nel governo israeliano e quasi tutti gli abitanti di Tel Aviv, convinti che la loro Los Angeles sul Mediterraneo, di spiagge e startup, fosse abbastanza lontana da quello scontro di sette, etnie e nazionalismi. Se lo chiedeva la grande maggioranza degli israeliani, certa che i palestinesi siano un problema solo quando fanno i kamikaze.
Eppure, nonostante l’Egitto, la carneficina siriana, la minaccia di Hezbollah e del nucleare dell’Iran, c’è chi di quel problema non ha mai smesso di preoccuparsi. Perché è pericoloso in potenza anche quando non è violento. Così John Kerry: dopo quasi tre anni di silenzio, è riuscito a riportare al negoziato due avversari in disaccordo su tutto. E’ un miracolo, non una svolta. A sancire la ripresa della diplomazia, la settimana prossima a Washington, non saranno i leader ma solo i negoziatori: non Bibi Netanyahu e Abu Mazen ma Tzipi Livni e Saeb Erekat.
La trattativa, viene spiegato, non durerà meno di nove mesi e sarà su tutto: compresi i prerequisiti che l’una e l’altra parte pretendevano venissero soddisfatti per tornare al negoziato. Non c’è dunque nulla di nuovo se non che, come gesto di buona volontà, Israele scarcererà qualche centinaio dei suoi 4.817 prigionieri palestinesi; e i palestinesi non chiederanno a Netanyahu di dichiarare pubblicamente il congelamento degli insediamenti: la causa principale della crisi del negoziato. Per un po’ non si costruirà più, anche se non ci saranno annunci.
Non erano solo gli americani a preoccuparsi del conflitto fra israeliani e palestinesi, nonostante facesse poche vittime. Anche l’Unione europea non aveva smesso di farlo, convinta come gli Stati Uniti che quel problema continui a essere una grave minaccia, sia pure a futura memoria. La decisione Ue di imporre regole nuove nelle relazioni economiche, commerciali, culturali, tecnologiche, accademiche con lo Stato ebraico, non ha precedenti. La contemporaneità con la ripresa della trattativa politica imposta dal segretario di Stato americano, non è del tutto casuale.
A partire dal primo gennaio del 2014, hanno deciso i 28 Paesi dell’Unione, ogni accordo dovrà avere una “clausola territoriale” che ne impone l’applicazione solo sul territorio dello Stato d’Israele riconosciuto dalla comunità internazionale. Quello cioè precedente alla guerra del 1967. Non dunque in Cisgiordania, sulle alture del Golan né a Gerusalemme Est araba che Israele ha annesso. Tutti gli accordi devono indicare “inequivocabilmente ed esplicitamente la loro inapplicabilità ai territori occupati”. L’ente o l’impresa governativa o privata dello Stato ebraico che conclude un accordo con l’Unione o un Paese membro, deve dunque riconoscere che quei territori non sono Israele. E’ accettare ciò che nessun governo, nemmeno quelli laburisti, ha mai ammesso.
I politici e la stampa israeliani le chiamano “sanzioni” e anziché cercare di capire, minacciano vendette. Ma è sbagliato. Non c’è riga delle nuove “linee guida” pubblicate venerdì, che sollevi il sospetto del non riconoscimento della sovranità israeliana dentro i confini riconosciuti da tutto il mondo. Ad eccezione di un paio di isole della Micronesia, nessuno, nemmeno gli Stati Uniti, ha mai riconosciuto come territorio israeliano la Cisgiordania, Gerusalemme Est e il Golan. Né che si tratti di sanzioni: al contrario, la “clausola territoriale” che sulla base del diritto internazionale individua quelle frontiere, impedisce ogni pericolo di sanzioni contro Israele.
Fino ad ora Israele aveva beneficiato di una zona grigia che nessuno si arrischiava a illuminare. Non gli Stati Uniti, dove ogni presidente deve fare i conti con una legge bipartisan che propone di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Pur avendo preso molte iniziative a favore dell’economia palestinese, nemmeno l’Europa riusciva a trovare il coraggio politico e l’unità d’intenti per affermare così esplicitamente la differenza fra territorio d’Israele e occupato, e così concretamente le sue conseguenze pratiche. E’ accaduto. Israele ha l’occasione per riflettere e i palestinesi per maturare. Questi ultimi, infatti, hanno la pericolosa tendenza a scambiare per vittoria ogni volta che Israele viene posto davanti alle sue responsabilità, e a cadere nel difetto che più li distingue: il massimalismo.
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