admin | September 21st, 2011 – 10:23 am
Mai tanti sforzi diplomatici sono stati concentrati in così poco tempo, e così poche ore. Magari sarebbe stato meglio spendere così tanta energia nell’elaborare una vera strategia sul Medio Oriente, a medio e lungo termine, piuttosto che affrettarsi e affannarsi per spegnere l’ipotesi del riconoscimento dello Stato di Palestina nei corridoi del Palazzo di Vetro. Deve far tanta paura, questo benedetto riconoscimento, se ora – come dice il Guardian oggi – il compromesso raggiunto dal Quartetto è quello di spingere Mahmoud Abbas a presentare la proposta, ma senza farla votare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per evitare lo scontro diretto tra Davide e Golia. Palestina versus Stati Uniti.
Mi sembra tutto una follia. La diplomazia che si affanna. Il lavorio dietro le quinte con i dieci paesi che fanno parte del Consiglio di Sicurezza (i ‘temporanei’, insomma) per evitare che sostengano il riconoscimento e soprattutto che lo votino. La diplomazia e la politica dovrebbero far altro, e lo dovrebbero fare in tempo. Perché la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina non è un fulmine a ciel sereno. Le diplomazie se ne occupano da quasi due anni. Da quando – all’indomani della moratoria sulle colonie offerta da Benjamin Netanyahu sotto pressione americana, della durata di 10 mesi e con la patente esclusione di Gerusalemme est – Mahmoud Abbas rigettò l’offerta come del tutto insufficiente e minacciò di andare all’Onu a chiedere il riconoscimento dello Stato. Era la fine di novembre del 2009. Qualche dettaglio in più, tra i documenti diplomatici pubblicati da Wikileaks, c’è qui. E se si vuol sapere qualcosa di più sulla posizione italiana, praticamente appiattita sulle richieste israeliane, basta leggersi questo documento, dell’ambasciata americana a Roma, in cui si descrive la conversazione con uno dei nostri diplomatici. Documento del 4 dicembre del 2009.
Due anni, in termini diplomatici, non sono pochi. Due anni per elaborare una strategia credibile, non sono pochi. Il nodo è proprio qui: l’assenza di una strategia credibile, da parte di tutti. Stati Uniti, Unione Europea, paesi arabi ostaggio dei propri regimi.
Non è stato fatto praticamente nulla. Lo status quo conveniva a tutti. Salvo poi accorgersi che nella regione non c’è più uno status quo. C’è l’inizio di una tempesta che ha già buttato giù qualche regime molto amico dell’Occidente e ha già scardinato tutte le strategie precedenti.
Di certo c’è solo un fatto. Lo Stato di Palestina è come se fosse stato già approvato e riconosciuto. E’ sul tavolo, e prima non lo era mai stato. E’ uno Stato di Palestina sui territori occupati da Israele nel 1967, e comprende tutta Gerusalemme est (e non, come diceva uno dei nostri diplomatici agli americani, magari un quartiere “come Abu Dis” per farci la capitale palestinese…). Un cambio epocale nella percezione del conflitto israelo-palestinese, non solo da parte delle opinioni pubbliche occidentali. Il paragone con il 1947 e la nascita di Israele, con tutti i distinguo del caso e della Storia, non è peregrino. Anzi. Con o senza voto al Consiglio di Sicurezza, lo Stato di Palestina è divenuto, più che una realtà, una urgenza, una necessità per colmare una ingiustizia.
Breve pausa per la playlist: Keith Jarrett, The Wind, che qui in Medio Oriente, da mesi, è tempesta. (Grazie, Carmelo).
Il vero nodo politico è, invece, tutto palestinese: ancora una volta, quale Stato e per quali cittadini. La questione dei profughi è fondamentale, e c’è già chi ha proposto di emettere cinque milioni di passaporti del nuovo Stato di Palestina da distribuire ai rifugiati che si trovano in Giordania, in Libano, in Siria, dovunque nel mondo, perché si superi lo iato tra l’Autorità Nazionale e l’OLP, tra autorità territoriale e rappresentanza del popolo. E anche perché i rifugiati – non più apolidi – abbiano un diverso status dentro i paesi che li ospitano da oltre sessant’anni.
Hamas, in tutta questa storia, subisce la decisione di Mahmoud Abbas, che ha messo da canto l’ipotesi di un governo di unità nazionale ma ha intascato, il 4 maggio, la riconciliazione tra Fatah e Hamas firmata di fronte al nuovo Egitto senza Hosni Mubarak. Nello stesso tempo, se Stato di Palestina ci sarà, Hamas si troverà quello Stato sui confini del 1967 che aveva ambiguamente accettato sin dal 2006, accanto a Israele che non ha riconosciuto. Accettare lo Stato di Palestina, in sostanza, significa accettare – senza farlo formalmente – l’esistenza dello Stato di Israele.
La domanda, tra i palestinesi della strada e gli intellettuali, non è però se i palestinesi siano o meno pronti ad avere uno Stato (domanda francamente razzista…). La domanda è se abbiano una leadership, che riesca a rappresentare un popolo. È la stessa domanda delle rivoluzioni arabe. Anche in questo caso, al shab yurid, “il popolo chiede”. Il popolo chiede elezioni e governo. Le leadership palestinesi, Hamas e Fatah insieme, sono ancora ostaggio di una mancata condivisione del potere. Ed è qui la vera debolezza, che fa chiedere – a chi si occupa di queste parti – cosa farà il popolo, nei prossimi mesi. Chiederà conto alle leadership? E in quale modo? Si ribellerà, le nuove, giovani elite chiederanno un altro tipo di politica? Faranno la loro rivoluzione?
La foto è di Maurizio Scalzi. Il MUro a Betlemme
http://invisiblearabs.com/?p=3546
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