admin | February 7th, 2012 – 1:07 pm
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Era già successo nel febbraio del 2007, quando l’Arabia Saudita era entrata con tutto il suo peso nella frattura politica tra Fatah e Hamas, e aveva ‘gentilmente costretto’ i due movimenti palestinesi ad accettare il governo di unità nazionale. Governo dalla vita breve, appena tre mesi, sino al colpo di mano di Hamas a Gaza, nel giugno dello stesso anno. Quella veloce mediazione saudita, però, aveva fatto comprendere quanto i palestinesi fossero (e siano) sensibili all’influenza che proviene dalla Penisola Arabica.
I tempi sono cambiati, e anche tanto. A cinque anni esatti da quell’accordo – firmato l’8 febbraio – gli stessi protagonisti si ritrovano a sud della Palestina. Stavolta non alla Mecca, ma a Doha. Sempre Mahmoud Abbas e Khaled Meshaal. Ancora loro, a guidare i rispettivi movimenti, come cinque anni fa, ma in un contesto completamente stravolto dal Secondo Risveglio arabo. Ancora loro, Abbas e Meshaal, ad accordarsi su di un governo di unità nazionale. O, per meglio dire, su un governo del presidente.
Perché? Perché ex abrupto? Stavolta le rispettive debolezze, quelle di Abbas e Meshaal come leader, e di Fatah e Hamas come movimenti, sono due tra gli elementi di questa intesa, ma non sono tutto. Abbas ha cinque anni in più, e una salute che non lo aiuta. Fallito anche l’ultimo tentativo di rimettere sui binari un qualsivoglia negoziato con gli israeliani, Abbas – l’uomo del compromesso in nome di un risultato pratico per i palestinesi – prova dunque di nuovo l’intesa con Hamas. D’altro canto, e lo si dimentica spesso, Abu Mazen è colui che convinse Hamas nel 2003 (per poche settimane) e poi nel 2005 (in maniera definitiva) ad aderire a una tregua unilaterale sugli attentati suicidi dentro le città israeliane. Abbas è colui che Hamas decise di non boicottare, quando si presentò candidato alle presidenziali del 2005.
Non è, dunque, così singolare che Meshaal e l’ufficio politico di Hamas abbiano potuto accettare, a Doha, l’accordo basato su un ‘governo del presidente’, un esecutivo guidato da Abbas nel suo ruolo di presidente (già scaduto) dell’ANP. A spingere Meshaal verso l’accordo, potrebbe essere stata l’urgenza di avere un risultato, in una fase di estrema debolezza. La ricomposizione degli equilibri interni di Hamas è in corso. La costituency di Gaza conta molto di più, ma si dice che non sia omogenea al proprio interno. E Meshaal (e Abu Marzouq) non possono, allo stesso tempo, perdere l’onda favorevole che sta premiando la Fratellanza Musulmana in tutta la regione, consolidando i rapporti con l’Ikhwan sia egiziano sia giordano.
Occorre far presto, insomma. Lo sanno tutti i protagonisti. Qatar compreso, a cui è toccata una mediazione che dovrebbe – nelle intenzioni – stabilizzare la politica palestinese, proprio nelle stesse settimane in cui l’ipotesi di un attacco israeliano contro l’Iran diventa sempre più concreta. Almeno stando alle indiscrezioni che, guarda caso, si fanno quotidiane, come per preparare le diversi opinioni pubbliche, da quella interna israeliana a quelle occidentali.
Una nuova guerra sembra ineluttabile, magari più tardi in primavera, e se fosse vero bisognerebbe almeno avere qualche fronte chiuso. Per esempio il fronte della politica interna palestinese. Significa, in soldoni, che occorre stabilizzare il rapporto tra Hamas e i paesi dell’islam sunnita, cercando di rompere l’alleanza (tattica, non strategica) con l’Iran. Era già chiaro leggendo i documenti resi pubblici da Wikileaks, che soprattutto l’Arabia Saudita aveva fatto la voce grossa con l’Iran perché non entrasse negli ‘affari interni’ arabi. Sembra evidente anche nella mediazione del Qatar tra Abbas e Meshaal. Evidente soprattutto in quel terzo impegno preso dal ‘governo del presidente’, e inserito nella Dichiarazione di Doha: l’esecutivo presieduto da Abbas deve occuparsi delle elezioni legislative, delle elezioni presidenziali, e della ricostruzione di Gaza. Un impegno che si lega alla promessa fatta due giorni prima della Dichiarazione di Doha dallo stesso emiro del Qatar al premier di Gaza Ismail Haniyeh, impegnato nel suo tour regionale.
L’emiro ha promesso a Haniyeh di ricostruire Gaza. E c’è chi, tra gli analisti citati per esempio oggi da Maannews, pensa che i soldi siano stati uno strumento potente nella pressione esercitata da sheykh Hamad al Khalifa al Thani per convincere non solo Abbas e Meshaal, ma probabilmente anche lo stesso Haniyeh. La questione della ricostruzione di Gaza, peraltro, è cruciale in questo momento. Non solo perché se i soldi non arrivassero dalla penisola arabica, potrebbe arrivare (e forse già lo fanno, dicono in molti) dall’Iran. Gaza non può essere lasciata nello stato di prostrazione sociale ed economica in cui si trova, anche per non destabilizzare ulteriormente l’Egitto. E quegli oltre quattro miliardi di dollari promessi nel marzo del 2009 dalla famosa conferenza dei donatori di Sharm el Sheykh non sono mai arrivati tutti quanti nella Striscia. Perché non si è mai risolto il nodo di fondo: a chi dovessero arrivare i finanziamenti, e chi li dovesse gestire. Hamas è nella lista delle organizzazioni terroristiche di USA ed Europa. I soldi non potevano essere mandati formalmente al governo di Gaza, ma Hamas si è sempre opposta a che fosse il governo di Ramallah, guidato da Salam Fayyad, a gestire i fondi della ricostruzione (ne parlo nel capitolo che ho aggiunto alla versione americana del mio libro su Hamas, che esce a New York il mese prossimo, da Seven Stories).
Risultato: il nodo non si è sciolto, ma potrebbe sciogliersi proprio con un governo del presidente. Il governo di Abu Mazen. Staremo a vedere. In Medio Oriente è troppo facile e frequente che gli accordi e le dichiarazioni rimangano carta. Buona per aumentare il numero delle pagine dei volumi che documentano la storia lacerata di questa parte del mondo.
Nella foto, un’altra Gaza. Anno domini 1937.
Nella playlist di oggi, c’è Ziad el Ahmadie, Majnoun Layla. E poi mi direte…
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