Quanto son dure le transizioni…

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admin | March 10th, 2011 – 11:46 am

Che sia in atto la rivoluzione panaraba è ormai un dato di fatto, incontrovertibile. Giusto ieri, il re del Marocco Mohammed VI ha parlato alla nazione per dire che ci saranno riforme costituzionali. Una risposta diretta alle varie manifestazioni di queste settimane in Marocco, e al timore che anche il regno maghrebino venga travolto dall’ondata del 2011. E poi lo Yemen, oggi, con Ali Abdallah Saleh che promette la transizione ed elezioni parlamentari. Mentre – altrove – si attendono le “giornate”, gli appuntamenti indetti via Facebook per protestare: l’11 inArabia Saudita, il 13 in Libano, il 15 in Siria e in Palestina. Un calendario sorprendente, come sorprendente è questo annus arabo.

Comunque, se la rivoluzione è in corso, e ha quella carica eroica indubitabile, le transizioni sono altra cosa. E sono molto più pericolose. Perché i regimi – veri e propri sistemi complessi costruiti e rodati in decenni di gestione del potere – non crollano in un giorno. Tentano di resistere, e di continuare a vivere. Tagliare la testa al serpente non vuol dire avere partita vinta.

Ancora una volta, è l’Egitto – come sempre succede nel mondo arabo – a essere laboratorio e modello. Anche in questo 2011. Eroica e bellissima la rivoluzione del 25 gennaio. Duri i colpi di coda del regime, che tenta di resistere al suo crollo. La situazione al Cairo (anche quella della sicurezza) è peggiorata appena è stato toccato uno dei pilastri del regime Mubarak, lo Amn el Dawla, la Sicurezza dello Stato, la Stasi locale, per così dire (per chi vuole avere un quadro storico del famigerato centro di controllo della vita degli egiziani, Al Masri el Youm descrive storia e fasi della sicurezza interna). Le pietre sono ricomparse a piazza Tahrir, dove qualche centinaio di sostenitori di Mubarak si sono fatti vedere, e hanno creato un po’ di caos. Prima, nella manifestazione dell’8 marzo, e poi – il giorno dopo – contro gli attivisti a piazza Tahrir. Per chi conosce l’Egitto, la cronologia degli eventi ha subito fornito la prima spiegazione di quello che stava succedendo. Era stato troppo duro da digerire, per un apparato che conta – a seconda dei calcoli – dai centomila agli oltre trecentomila membri, tra informatori, picchiatori e veri e propri funzionari, l’assalto alla centrale di Nasr City, al Cairo, e la scoperta di celle nei sotterranei in cui erano ancora detenuti (nonostante vi fosse stata la rivoluzione) decine di attivisti.

E allora, come si dice a Roma, bisogna fare un po’ di casino. Far vedere che non è tutto rose e fiori, e che la sicurezza individuale, per ogni singolo cittadino egiziano, comincia a essere un problema.  Le pietre a Tahrir, e soprattutto gli scontri tra musulmani e copti al Moqattam, area difficile del Cairo. Le tensioni erano state originate da questioni tipo Montecchi e Capuleti nel villaggio di Sol, a Helwan, e poi erano degenerate. Al Cairo c’è chi dice (e sono molti) che a rinfocolare gli animi siano stati – appunti – pezzi del regime che non vogliono abbandonare il potere, e magari pagare per le violazioni compiute negli scorsi anni. Il risultato è sanguinoso: molti morti, sia copti sia musulmani, e un intervento che si dice piuttosto pesante da parte dell’esercito egiziano, che non ha mai dovuto fare ordine pubblico, in questi decenni.

Il giorno dopo gli scontri, arrivano i pompieri. Si fanno riunioni, Al Azhar manda una delegazione in loco per tentare di calmare gli animi e soprattutto dire che musulmani e copti (come si diceva nella minirepubblica di Piazza Tahrir) sono dita della stessa mano, parti ineludibili del grande Egitto. Compito difficile, certo, perché il tema è delicato, e anche i copti, in questi giorni, hanno le loro responsabilità nel tentare di risolvere la discriminazione alla vecchia maniera. Ragionando come una minoranza che chiede protezione e privilegi, e non come parte integrante del popolo egiziano. Non è un caso che i copti siano divisi, e da tempo, tra chi soffia sul fuoco – ivi comprese ambigue agenzie di notizie che ingigantiscono fatti – e la parte della comunità che è stata a piazza Tahrir, e che non è fatta solo di giovani, ma anche di preti e di imprenditori. Naguib Sawiris, il più importante tycoon del paese e copto lui stesso, ha chiest ieri sera ai copti che manifestavano di fronte alla tv di stato per il terzo giorno consecutivo, di tornare a casa. Proprio per evitare che ancora una volta i copti usino gli stessi strumenti usati con il regime di Mubarak: agire come una minoranza.

Il nodo, dunque, è anche politico. Come la transizione riuscirà a disegnare la nuova democrazia egiziana. Per chi ne vuol sapere di più, è in edicola l’ultimo numero di Limes, concentrato su Egitto e Libia. Dentro, c’è anche un mio articolo sull’arcipelago delle opposizioni a Mubarak, che ora dovranno diventare i protagonisti della scena politica. Intanto, Mohammed el Baradei ha sciolto la riserva. Correrà per le presidenziali. Si preannuncia una corsa a due, tra lui e Amr Moussa.

Nella foto, bellissima, di Hossam el Amalawy, si vedono gli attivisti del 25 gennaio nei locali della centrale della Sicurezza dello Stato a Nasr City, circondati dai documenti che i funzionari dello Amn el Dawla hanno distrutto, prima di venir fermati. Nello stesso palazzo sono state trovate le celle, nei sotterranei.

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