Tenerezza
La faccia da bambino del Caporale Gilad alla televisione ci ha fatto tenerezza. Di Gilad tutti oramai conosciamo il nome e la storia mentre dei 477 palestinesi liberati, vi sfido a dirmi un nome… perchè ora questo scambio di prigionieri? Cosa si vuole preparare per il futuro ? Io non credo che si muoverà il processo di pace anche perché in questi giorni continua il furto della terra della nostra parrocchia qui a Bet Jala con la costruzione dei nuovi insediamenti, quindi c’è sotto qualcos’altro, come sempre.
(Abuna Mario)
Incredibile: esistono anche i palestinesi!
Incredibile ma vero. Alla liberazione di Gilad Shalit c’erano anche i palestinesi. Il giovane soldato israeliano, sorridente ha rubato la scena.
Poi, più fugacemente sul palcoscenico mediatico sono saliti i 280 palestinesi. Circa 700 detenuti, quasi ignorati, erano finiti nelle carceri israeliane per essersi ribellati all’occupazione come farebbe qualsiasi essere umano. Come farebbero gli israeliani se i rapporti di forza fossero invertiti. I 700 sono stati inglobati nella categoria “terroristi” per la necessità di semplificare la questione. (…)
«Non sto chiedendo la luna», piaceva dire ad Arafat durante la trattativa di Oslo. Voleva intendere che l’indipendenza palestinese non era una causa così impossibile. Portò a casa molto meno, l’autonomia in un emmenthal territoriale nel quale gli arabi controllano i buchi. È così ancora oggi: ogni Palestina con i suoi prigionieri liberati, ognuna con la sua festa.
Ugo Tramballi
Dalla prigione all’esilio
Molti degli ex-detenuti che ieri hanno varcato il valico di Rafah sono originari della Cisgiordania, ma rimarranno confinati a Gaza. I restanti 40 detenuti, considerati pericolosi da Israele perché direttamente implicati in attentati, sono atterrati stamattina nelle loro destinazioni d’esilio: Siria, Turchia e Qatar. A seconda dei casi, per loro si prospetta un’espulsione temporanea o definitiva nei tre paesi che hanno acconsentito ad accoglierli. È polemica sull’espulsione dei quaranta prigionieri. “Necessario” per la sicurezza del paese secondo le autorità israeliane, l’esilio dei prigionieri liberati è una violazione dell’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento forzato e le deportazioni di persone che dovrebbero essere protette e riabilitate. L’organizzazione per i diritti umani al-Haq e l’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer hanno condannato ieri le modalità dello scambio, soprattutto per quel che riguarda la mancata liberazione di tutte e 35 le detenute e la deportazione di molti prigionieri. “Le condizioni del loro rilascio –ha osservato Shawan Jabarin, direttore di al-Haq- sono sempre dettate dagli interessi politici israeliani, proprio come lo è stato il destino di 1027 prigionieri era legato alla liberazione di un singolo soldato israeliano”.
Nena News
Felicità tanto attesa
Ecco, il momento che sta aspettando da anni diventa realtà. Vede il suo caro salutare una folla anonima di palestinesi orgogliosi ed esultanti. Subito, i suoi occhi si riempiono di lacrime e sulla sua bocca si apre un sorriso, che rimarrà intatto per tutto il resto della manifestazione. Grida, agita le braccia come un pazzo e abbraccia tutti quelli che gli stanno intorno. Dovrà aspettare un’altra mezz’ora prima di guardare direttamente negli occhi il suo caro e baciarlo, ma è in estasi, circondato dall’intera famiglia, esattamente come lui, con gli occhi rossi e sorrisi contagiosi.
Migliaia di palestinesi si sono ritrovati ieri fino a mezzogiorno alla Muqaata, il Palazzo Presidenziale a Ramallah, per accogliere gli oltre cento prigionieri rilasciati dalla prigione di Ofer nella prima parte dell’accordo stretto da Hamas e il governo israeliano. L’attesa è stata lunga, ma è stata una festa: gruppi di uomini danzavano la dabka, bambini e bambine correvano ovunque e sventolavano bandiere palestinesi, le donne saltavano e ballavano in cerchio. Ieri, in questo grande spazio aperto, tutti sorridevano; almeno per qualche ora, la felicità era diventata una realtà, non una promessa.
AIC, Betlemme
Coloni (e soldati): anche gli ulivi obiettivi di guerra
di Michele Giorgio
«I comandi militari israeliani non ci danno abbastanza tempo per la raccolta delle olive. Tre giorni in questa zona, altri tre in un’altra. Altrimenti, ci fanno capire, non ci sarà nessuno a frenare i coloni israeliani». Non è il Far West ma poco ci manca quello che descrive Mahmud Zawahra, del Comitato popolare di Masraa. «Qui la situazione è tesa – aggiunge – ma non come nella zona di Nablus dove ci sono i coloni più estremisti».
E’ la loro terra, posseggono uliveti da generazioni e da sempre producono l’«oro giallo», l’olio fonte di reddito per migliaia di famiglie. Eppure i contadini palestinesi ogni anno vanno alla raccolta delle olive come fosse una guerra. Rischiano grosso quelli che hanno i terreni a poche decine di metri dalle colonie, dove la sicurezza privata degli insediamenti impone una sorta di zona interdetta. I soldati mettono fine agli scontri tra coloni e contadini sempre allo stesso modo: mandando a casa i palestinesi, anche se la raccolta non è terminata.
I costi economici per questo settore dell’agricoltura palestinese sono alti. Quest’anno, ha calcolato l’ong internazionale Oxfam, i produttori di olive e olio hanno perduto mezzo milione di dollari soltanto dalla distruzione degli alberi da parte dei coloni. «Bruciare un albero d’olivo è come dare fuoco al conto corrente di un contadino», ha spiegato il direttore di Oxfam, Jeremy Hobbs, «circa 100mila famiglie palestinesi dipendono da quanto riescono a guadagnare dalla raccolta». Soltanto a settembre sono stati bruciati o tagliati 2.500 ulivi, almeno 7.500 dall’inizio dell’anno. E raramente i coloni vengono arrestati per questo tipo di attacchi. L’ong israeliana Yesh Din riferisce che in tutti i casi di distruzione di olivi che ha seguito dal 2005 al 2010 nessuno dei sospetti è mai stato portato in giudizio.
Anche le aggressioni fisiche sono all’ordine del giorno. Da quando è cominciata la raccolta, 20 giorni fa, si sono registrati attacchi in diversi punti della Cisgiordania. I settler dell’insediamento di Itamar, armati di bastoni e pietre, hanno aggredito i contadini impegnati nella raccolta sul terreno di proprietà alla famiglia Awwad, coinvolta nei mesi scorsi nella strage dei Fogel, una famiglia di coloni. Tentativi di aggressione si registrano da giorni a Burin, Qusra, Qaryut, Beit Furiq, Iraq Burin, Huwwara, Essawiya. Il villaggio più a rischio è Burin, i cui alberi arrivano sulle colline vicine alle recinzioni della colonia di Yitzhar. Per garantire una difesa passiva ai contadini palestinesi, si stanno intensificando le presenze internazionali nei Territori occupati. Decine di volontari che arrivano da ogni parte del mondo, soprattutto da Italia e Francia.
Fino al 9 novembre, un gruppo di 14 volontari italiani sarà accanto ai contadini di Masraa e Iraq Burin nel quadro di una iniziativa promossa dal «Servizio civile internazionale», dall’«Associazione per la pace» e «Un ponte per…», in collaborazione con il coordinamento «Ci rifiutiamo di morire in silenzio» che riunisce i comitati popolari palestinesi. Insieme all’ex presidente dell’europarlamento Luisa Morgantini l’altro giorno ne abbiamo incontrati cinque nelle campagne a sud di Betlemme, vicino al blocco colonico di Etzion. Massimiliano, Simone, Mariella, Dario e Laura ci hanno riferito di una «importante esperienza politica e umana» fatta in questi giorni contribuendo alla raccolta delle olive e ponendosi a protezione dei contadini. «Proviamo anche a parlare ai soldati – ha detto Massimiliano -, cerchiamo di spiegare loro che occupano la terra di un altro popolo e negano ai palestinesi una esistenza libera e dignitosa». Un tentativo di dialogo che ha avuto risultati scarsi.
(Il Manifesto, 23 ottobre 2011)
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