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“Qui sono e faccio quello che ho sempre sognato”

Se chiudo gli occhi [1] vedo Vittorio ballare la dakka, la danza tradizionale palestinese, ad un matrimonio di un amico comune. E poi sul palco, di fronte a centinaia di persone, impugnare il microfono e intonare a gran voce, tra i tentativi di imitazione del pubblico, “Bella ciao”.
Era l’estate del 2009
ed eravamo a Deir Al Balah. Quello che fino a ieri per me era solo il quartiere delle palme, un piccolo campo profughi nascosto tra le vie, dentro il quale era nato e cresciuto il nostro amico Hamza.
“Era il posto migliore per rapirlo – mi aveva detto ieri sera, quando finalmente ero riuscita a prendere la linea di Gaza.- E’ una delle zone dove ci sono meno controlli di polizia. Andrà tutto bene, non oseranno sfidare Hamas”.
Oggi non ho voluto leggere i giornali, ma l’immagine di Vittorio bendato, mi ha inseguito per tutta la città.
P
erché? Mi chiedono tutti. Perché ultimamente si era speso per la riconciliazione di Fatah e Hamas? Perchè era un giornalista scomodo (guai a chiamarlo così, io sono un “attivista per i diritti umani”, diceva con quella sua erre moscia), delatore di crimini israeliani ma anche palestinesi? Perché chiedeva a chi entrava nella Striscia un paio di bottiglie d’alcool proibite? Non lo so e forse, come succede da quelle parti, non lo sapremo mai.
“Qui sono e faccio quello che ho sempre sognato”, mi aveva confidato una sera d’estate. Utopia, il suo nickname, che diventa realtà. Battersi per i diritti del popolo palestinese rischiando ogni giorno, proprio come loro, la vita. Nei campi con i contadini, in mare con i pescatori, nelle ambulanze sotto le bombe.
Perché Vittorio aveva scelto di vivere come un palestinese, non abbandonando Gaza nemmeno durante “Piombo fuso” e forse, chissà, per tutta la vita.
“Mish muskeli”, nessun problema, borbottava sempre nel suo arabo-padano. E invece è un grosso problema, Vik. Per te, per noi, per quella pace alla quale oggi fatico a credere ancora.

di Anna Maria Selini

pubblicato su Peacereporter [2]