Rabbia, numeri e il gusto dell’iperbole

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admin | September 15th, 2012 – 2:38 pm

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Guardate questa foto. Osservatela bene. Come sempre succede, le immagini possono essere interpretate a seconda del punto in cui si concentra l’attenzione. Vi elenco quello che io vedo. Ragazzi che pregano. Vi posso dire che pregano in una strada del Cairo, fotografati da mosaaberizing,  uno dei ragazzi che per tutta l’epopea di Tahrir, tra gennaio e febbraio 2011, è stato in piazza a vivere e descrivere la rivoluzione egiziana. Ragazzi che, a giudicare da come vestono, potrebbero essere ultras di una delle squadre di calcio del Cairo, e/o ragazzi a cui è stata data poca speranza di un futuro decente. Marginali? Forse, ma non è detto. Pregano in una sosta della battaglia ingaggiata con la polizia egiziana nelle proteste di questi ultimi giorni per il video anti-islamico. Lanciano sassi contro i poliziotti che difendono l’ambasciata americana in Egitto.

Poche certezze, anzi, molta confusione, nella lettura di questa bellissima foto. C’è però un elemento che è incontrovertibile. Sono un pugno di ragazzi, sono pochi. E di numeri, oggi, voglio parlare.

A dire il vero, non sono la sola. Ieri Mark LeVine, antropologo e musicologo che scrive anche sul sito di Al Jazeera, studioso molto interessante, aveva messo un link sulla sua pagina Facebook: il link a una foto di Joe Bradford. Nella foto non c’erano ragazzi musulmani, ma quegli stessi ragazzi c’erano in forma di numeri. In un grafico molto semplice, erano riportati alcuni dei principali paesi a maggioranza musulmana, la popolazione di ciascuno, e in una colonna a parte il numero di partecipanti alle proteste di questi giorni. I dati della popolazione dei singoli paesi erano quelli della Banca Mondiale. Il numero dei dimostranti ricavato dai lanci di agenzia. Fatta la tara sull’evoluzione delle proteste, sui  numeri mancanti di alcuni paesi, il grafico regge. A protestare, in questi giorni, saranno state 10mila, forse ventimila persone? Vogliamo esagerare, e stimarne cinquantamila? Joe Bradford parla di 9mila dimostranti in giro per il mondo. Io credo che ce ne siano stati di più, tra le centinaia a Sydney di stamattina e le poche migliaia del Cairo, sino ai numeri più consistenti di Khartoum, di San’a, di Tunisi. E se anche fossero stati centomila, un totale di centomila in tutti i paesi a maggioranza musulmana, dove – nel complesso – vivono un  miliardo e duecento milioni di fedeli nell’islam, possiamo veramente – come giornalisti – dipingere quello che sta succedendo in questi giorni come una vera e propria insurrezione, una rivolta, un’orda furiosa? Possiamo avere l’ardire di chiamare quello che sta succedendo come “la rabbia islamica”, come “furia islamica globalizzata” (La Padania), il “venerdì della rabbia islamista” (Avvenire), “Comanda Al Qaeda. Rivolta contro l’Occidente nel nome di Allah”(Libero), “Islam, rivolta anti-Occidente” (Il Messaggero), “i giorni dell’ira contro l’America”(Repubblica)? Ho scelto solo i titoli più eclatanti, e la lista della semplificazione, e soprattutto dell’iperbole, non si conclude nei pochi esempi che ho fatto.

Bastano e avanzano questi esempi, però, per chiederci tutti per quale motivo ci sia bisogno di mistificare in questo modo la realtà, ingigantirla a tal punto da far credere – ai lettori – che sia imminente un’invasione. E che tutti i musulmani, tutto il miliardo e duecento milioni, ce l’abbiano con noi, che siamo buoni e non abbiamo fatto nulla. Che siamo tolleranti, propaghiamo il verbo dei diritti in giro per il mondo, e soprattutto non bruciamo le ambasciate. Magari talvolta mandiamo truppe armate non solo di equipaggiamento militare, ma anche di buoni propositi. Questa, però, pensiamo sia tutta un’altra storia…

Le foto di mosaaberizing  non ritraggono solo ragazzi che pregano. Ritraggono ragazzi che tirano sassi e molotov, incendiano blindati, indossano pantaloni simili a chi, l’anno scorso, mise in ginocchio Roma e incendiò i blindati delle nostre forze dell’ordine. Non rappresentavano tutta Roma, tutta l’Italia, tutta l’opposizione, tutto il disagio. Erano pochi, anche allora, a Roma, a prendere in ostaggio una grande manifestazione indetta per altri scopi. E anche allora, a Roma, i giornali fecero poca distinzione, tra chi aveva messo a ferro e fuoco l’area attorno a San Giovanni e chi – pacificamente – avrebbe voluto dimostrare il dissenso.

Allora, forse, il problema non è il modo in cui noi giornalisti rappresentiamo un  mondo che pensiamo diverso, lontano e antagonista al nostro. Il problema non è il modo in cui noi giornalisti presumiamo di rappresentare il mondo arabo, il più grande mondo musulmano, le sensibilità religiose, i profeti, le fedi considerate di serie A e di serie B. Il problema è come rappresentiamo la realtà. Qualunque essa sia. È realtà? È iperbole? È una parola disconnessa dalla realtà e dagli eventi?

Un’ultima domanda, che condivido con Issandr al Amrani: perché la ‘rabbia’ non è scattata per episodi più esecrabili, dal punto di vista dell’immaginario musulmano, come la copia del Corano bruciata in Afghanistan da un soldato americano? È una rabbia, come dice arabist, “fabbricata” da un network internazionale di attivismo islamista? Il tempo non è ininfluente, in tutta questa triste storia: non solo per l’11 settembre, non solo per altri anniversari importanti nella storia recente del Medio Oriente come il trentennale del massacro di Sabra e Shatila. Il tempo è il tempo della campagna elettorale americana che dovrebbe – anche – scegliere tra due approcci in politica estera (non c’è una distanza siderale tra i due approcci, ma quella che c’è basta per stravolgere in un modo o in altro la regione mediorientale). Il tempo è anche il tempo dell’assemblea generale delle Nazioni Unite, che a ogni settembre si dovrebbe occupare di molte cose, e non di un immaginario e pompato scontro di civiltà ad usum delfini. Il tempo è il tempo del braccio di ferro tra l’amministrazione Obama in scadenza e il premier israeliano Bibi Netanyahu su un possibile raid preventivo israeliano sui siti nucleari iraniani, e sui rischi di un conflitto da

Ce n’è  insomma  abbastanza di carne al fuoco perché la rabbia di qualche migliaio di dimostranti – salafiti, ultras, islamisti, emarginati – possa essere confinata là dove deve essere confinata.

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