RAID LIBIA/ Italia in guerra, ma per chi?

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di Mario Mauro

venerdì 5 agosto 2016

 Siamo in guerra in Libia? Senza dubbio. Ma partecipare a operazioni belliche senza capire il contesto potrebbe rivelarsi controproducente. L’attuale governo Serraj avrebbe dovuto godere, in teoria, di notevoli chance per affermare la propria autorità nell’intero Paese: l’appoggio dei gruppi di Misurata avrebbe garantito forza militare all’ovest, mentre la presenza, all’interno del governo, di rappresentanti della città di Zintan, del generale Heftar e della Cirenaica avrebbe dovuto garantire sicurezza e consenso politico d est. Tuttavia, sia Zintan che i cirenaici hanno assunto per il momento una linea di contrasto con il resto del Consiglio Presidenziale, rendendolo di fatto espressione di una parte sola del quadro politico­militare del Paese (un governo, peraltro, guidato da una figura con scarso peso politico e priva di particolare carisma o influenza personale). Va poi osservato che la struttura istituzionale disegnata dagli accordi di Skhirat del dicembre 2015 concede di fatto un potere di veto a Heftar attraverso il ruolo della Camera dei Rappresentanti che, caduta sotto il suo controllo attraverso lo speaker Aqila Saleh, suo accolito, assai difficilmente consentirà un’evoluzione politica a lui sgradita.

A complicare ulteriormente il quadro vi è la questione dell’Isis, potenziale detonatore di un nuovo ciclo di violenze intra­libiche, nonché il fatto che la crisi libica è parte integrante di una crisi regionale più ampia e multiforme, nell’ambito della quale le forze libiche partecipano a schieramenti contrapposti. Diversi Stati della regione, in contrasto fra loro, sostengono l’uno o l’altro degli attori libici in base ai loro interessi regionali e nazionali. Anche le potenze esterne alla regione, in particolare gli Usa, gli europei e la Russia, hanno interessi, affinità e alleanze nella regione e nella stessa Libia non sempre coerenti con l’appoggio che hanno formalmente deciso di dare alla soluzione politica proposta dall’Onu e alle forze che in Libia la sostengono.

Al di là dell’ampio consenso internazionale sulla linea indicata dall’Onu, quindi, ci sono interferenze, contrasti e contraddizioni che spesso la ostacolano e attori influenti che puntano a soluzioni diverse. Contrapposizioni e dissensi si registrano, in particolare, in relazioni a tre questioni: l’assetto politico della regione e il “balance of power” fra le principali potenze regionali, ciascuna delle quali punta alla sistemazione che percepisce come a essa più favorevole; la proiezione degli interessi delle potenze internazionali nella regione, che condizionano e limitano alleanze e sostegni; la lotta all’Iis e al “terrorismo”, o meglio all’islamismo radicale e violento.

Dal punto di vista del diritto, occorre sottolineare che il governo Serraj, più che un governo sovrano, appare come un ente fiduciario, legittimato dall’esterno. La sua scarsa effettività pone problemi per quanto riguarda la concessione del consenso a un ipotetico intervento internazionale in Libia: a tal fine si renderebbe opportuna una richiesta del governo Serraj, corroborata però anche da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ciò vale anche per l’ingresso della Eunavfor Med nelle acque territoriali libiche per contrastare il traffico illegale di migranti.

Quantunque la Libia sia sostanzialmente uno “Stato fallito”, infatti, devono comunque essere rispettate le sue prerogative sovrane, ad esempio in materia di pesca nelle acque adiacenti alla Sirte, che tuttavia restano, ad altri effetti, una zona di alto mare (ad esempio, per operazioni antiterrorismo). Anche interventi effettuati a partire dalla base di Sigonella mediante droni armati Usa devono rispettare il diritto internazionale, altrimenti l’Italia rischia di incorrere in responsabilità internazionali. L’impatto sui nostri rapporti con la Libia del Trattato italolibico di amicizia e cooperazione del 2008 resta un punto interrogativo, essendo la sua permanenza in vigore dubbia. Sarebbe opportuno effettuare un inventario di tutti i trattati stipulati tra i due Stati, anche in vista di una loro eventuale riattivazione. Ora tutto sembra invece ridotto alle operazioni militari.

Nelle scorse settimane si sono intensificati gli scontri tra le milizie che sostengono il Governo di Unità Nazionale, guidato dal Premier Serraj, e i seguaci di al­Baghdadi asserragliati nella zona centrale di Sirte, occupata dal giugno 2015, in un assedio che ormai dura da oltre due mesi nell’ambito dell’Operazione Al­Bunyan Al­Marsoos per la riconquista della città. In particolare, nel corso delle ultime due settimane, sono stati effettuati diversi bombardamenti con fuoco di artiglieria e supporto di un paio di elicotteri Mi­35 gestiti dalle milizie di Misurata, intorno all’ex complesso congressuale Ouagadogou attuale Quartier Generale dell’Isis, l’ospedale Ibn Sina, l’università e nei quartieri Ghiza Alaskiriya, Algharbiyat; tutti situati nella parte meridionale della città dove è stato ricacciato il grosso delle forze di Daesh (non più di 8­900 uomini, rispetto ai quasi 3.000 stimati prima dell’offensiva).

A guidare l’offensiva ci sono le milizie misuratine che avanzano dall’area occidentale della città, supportate da un consistente contingente delle Petroleum Facilities Guards guidate da Ibrahim Jadhran, presenti nella zona orientale di Sirte. Dopo i primi e rapidi successi nell’eliminazione delle unità appartenenti al “califfato”, sulle zone costiere della città e, in particolare, nel porto di Sirte, nelle zone adiacenti alle infrastrutture portuali e nel quartiere Sawawa, le forze del Gun, che operano da una staging base situata nel quartiere di Zaafran, nell’area costiera occidentale, hanno proceduto alla bonifica della strada che a est collega il quartiere Harawa al centro della città. Tuttavia, nelle ultime settimane la battaglia si è trasformata in una vera e propria guerriglia urbana, combattuta strada per strada, prima nelle aree residenziali e ora nella parte centrale di Sirte, con le forze del “califfato” incapaci di ingaggiare frontalmente le forze nemiche, con conseguente scelta in favore di una strategia di resistenza basata sulla guerriglia, su attacchi “mordi e fuggi” e sul largo utilizzo di fuoco di cecchini situati sui tetti dei tanti edifici presenti.

Finora, nonostante l’arretramento delle forze di al­Baghdadi, la tattica ha inflitto perdite consistenti tra le fila misuratine (360 caduti e 1.300 feriti). Così si spiega il raid avvenuto nel pomeriggio del 1 agosto, quando alcuni velivoli americani hanno effettuato un bombardamento contro postazioni dell’Isis nell’area di Sirte, eliminando 3 veicoli corazzati, tra i quali un carro armato T­72. L’attacco aereo, avvenuto in seguito a una specifica richiesta del Consiglio di Presidenza guidato dal premier libico Serraj, rappresenta il secondo raid aereo americano del 2016, dopo il bombardamento avvenuto lo scorso febbraio ad opera di una coppia di F­15 del 48 Fighter Wing di Lakenheath, ai danni di un campo di addestramento di Daesh situato nell’area ad ovest di Sabratha.

Il raid di agosto ufficializza l’inizio di un coinvolgimento statunitense più intenso rispetto al conflitto libico. Come comunicato dallo stesso Pentagono, infatti, si è trattato di un primo bombardamento che verrà seguito da altre incursioni nei prossimi giorni, secondo un’operazione suddivisa in tre diversi fasi. Una prima fase (Odyssey Resolve) caratterizzata dall’utilizzo di velivoli Uav in missioni Isr, iniziata lo scorso weekend; una fase intermedia (Junction Serpent), svolta dalle FS, in cui vengono fornite le informazioni riguardanti il posizionamento e il targeting degli obiettivi; e una fase finale (Odyssey Lightning), che prevede il bombardamento e l’eliminazione degli obiettivi con un mix di velivoli manned e unmanned. Nello specifico, il raid in questione è stato effettuato da un drone MQ­9 Reaper dell’Air Force decollato da Sigonella e da un mix di 2 elicotteri AH­1W Super Combra e 3 convertiplani MV­22B Osprey entrambi appartenenti al VMM­264 Black Knights dei Marines, decollati dalla nave d’assalto anfibio USS Wasp che naviga al largo delle coste libiche.

Quest’ultima, oltre a imbarcare diversi elementi della 22nd Expeditionary Unit dei Marines, possiede uno squadrone composto da 11 convertiplani MV­22B, 3 elicotteri AH­1W, 3 CH­53E, un utlity UH­1Y e 6 cacciabombardieri AV­8B Harrier II Plus. È estremamente probabile che, qualora l’offensiva per la riconquista di Sirte dovesse avere successo, i militanti dell’Isis sopravvissuti alla battaglia decidano di ritirarsi verso sud (tenuto conto della difficoltà di una fuga verso ovest o est dove sono presenti rispettivamente le milizie di Misurata e le PFG di Jadrhan) dove potrebbero prendere di mira gasdotti e oleodotti, e disperdersi sul territorio riorganizzandosi in piccole cellule sparse non solo sul territorio libico, ma anche in quello di Paesi vicini (non necessariamente confinanti), dai quali potrebbero pianificare attacchi/attentati.

Mentre le brigate misuratine e le Pfg, integrate da distaccamenti di Forze Speciali occidentali, combattono Isis a Sirte, le forze fedeli al Generale Haftar, che non supporta il Governo Serraj, sono impegnate a snidare le milizie qaediste dai fronti della Cirenaica. L’esempio di Haftar, non certo l’unico, ancorché il più eclatante, conferma come il Governo Serraj, per quanto internazionalmente riconosciuto, non sia ancora riuscito a unire il Paese, né tantomeno a creare un unico Esercito che possa combattere in modo davvero efficace Daesh. L’inviato Onu in Libia, Martin Kobler, ha suggerito a tal proposito la creazione di un Esercito nazionale decentralizzato, basato cioè su tre consigli militari stabiliti su base geografica (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan), in modo da placare le rivalità esistenti tra le milizie vicine al Governo Serraj, quelle fedeli alle frange più estremiste della capitale e le forze di Haftar.

Va da sé che l’attuale embargo sulla fornitura di armamenti, imposto indiscriminatamente su tutto il Paese, rende ancor più arduo il raggiungimento di tale obiettivo. Lo stesso Kobler ha esplicitamente fatto appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché fornisca equipaggiamenti e armi necessarie a chi è impegnato nei combattimenti contro Daesh. Consiglio che, comprensibilmente, continua a mantenere una certa cautela al riguardo, tenuto conto della difficoltà nel tracciamento di tali armi e delle scarse garanzie riguardo al fatto che le stesse non finiscano in mani sbagliate. Al momento si può dire che la Comunità internazionale preferisce continuare a seguire due strade parallele: una politica, che prevede il supporto diplomatico nei confronti del Gun di Serraj; e una militare, che si estrinseca in un supporto diretto alle operazioni volte a eliminare le milizie islamiche estremiste presenti sul territorio libico.

Tornando agli aspetti più prettamente strategici, è chiaro che l’Isis rappresenta, al momento, il focus principale delle attenzioni militari da parte delle varie fazioni libiche. E da parte di molte nazioni. Ma non tutte con gli stessi scopi.

 

RAID LIBIA/ Italia in guerra, ma per chi?

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