Riconoscimento di un assedio

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“Il blocco navale è un atto di guerra. L’assedio di Gaza è un atto di guerra. Non solo secondo il diritto internazionale, ma anche secondo ogni logica. Gaza è stata messa sotto assedio dagli israeliani e blindata come una gabbia. I governanti israeliani fanno gli innocenti e la comunità internazionale tace. Tutta la Palestina è sotto assedio. Vorrei vedere quale nazione accetterebbe senza reagire di essere posta sotto assedio”(Il popolo dell’esilio, Editori Riuniti).

L’assedio di cui parla Moni Ovadia è forse la sintesi più azzeccata della condizione degli attuali “avanzi di Palestina” (Ocha, agenzia ONU), della sua terra e dei suoi abitanti. Tutto il mondo lo sa con chiarezza, ormai, dopo un secolo di oppressione. Tutti sanno che quella Palestina che nei prossimi giorni verrà anche solo nominata nel più alto consesso delle Nazioni Unite, nella realtà è una terra depredata, una groviera di colonie in pieno sviluppo frantumato da muri, strade e check-point e consegnato irrimediabilmente ad una potenza occupante che controlla precisamente ogni cosa.
Tutti i palestinesi hanno da tempo lo sguardo fisso sul calendario per questo mese di settembre 2011, con attesa paziente o inquieta speranza, ma BoccheScucite simbolicamente ricorda che è stato invece l’agosto 2011 a dimostrare ancora una volta l’assedio compiuto e realizzato in questa terra. Volentieri diffondiamo in Italia i dati dell’ultimo Report di ARIJ, Istituto di ricerca di Gerusalemme mettendo a fuoco solo quello che riguarda le coltivazioni di ulivo:
“Il mese di agosto 2011 ha visto uno dei più feroci attacchi alle coltivazioni palestinesi di ulivo da parte dei coloni israeliani. E’ vero che la principale ricchezza e fonte di vita degli abitanti della Cisgiordania, alberi da frutto e olivi, sono sempre stati sistematicamente scelti dall’esercito per costruire il Muro o per semplici atti di vandalismo, ma nel solo mese di agosto i coloni israeliani hanno totalizzato una delle più consistenti serie di attacchi in diversi governatorati palestinesi, che al 31 del mese totalizzava ben 722 alberi”.
Certamente nessuno parlerà di questo nella prossima attesissima sessione delle Nazioni Unite, ma per descrivere la realtà di questa terra assediata e derubata, conquistata e depredata, preferiamo partire dal basso, anzi da sottoterra…
“Il vero motivo per cui gli alberi sono sistematicamente presi di mira da parte dell’esercito israeliano e dei coloni è ciò che rappresentano per i palestinesi: l’intimo legame con le loro terre, il loro principale mezzo di sostentamento e la prova inconfutabile dell’indiscutibile riconoscimento della loro proprietà e dei loro diritti”.
Ecco la parola del momento: “il riconoscimento” della Palestina, la possibilità, almeno per un giorno di comparire nei titoli di giornale o praticamente la semplice ammissione della sua “esistenza”.
I volontari del Team di Pax Christi, Tutti a raccolta 2011, stanno per partire dall’Italia per il campo di solidarietà e di lavoro tra gli ulivi di Cisgiordania, e ci piacerebbe prima della solenne dichiarazione dell’ONU per lo Stato di Palestina, fare un più umile “riconoscimento” di questa ricchezza rappresentata dalla terra palestinese, quegli uliveti che coprono più del 40,3% della superficie coltivata in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono il 79% di alberi da frutto coltivati. Ma il riconoscerlo passa attraverso la mappatura delle violente distruzioni di quest’ultimo mese:
“275 piante sono state abbattute nel villaggio di Qasra e 40 a nord di Salfit, 50 alberi sradicati a Beit Ummar e più di 100 a sud di Ramallah; le ruspe hanno colpito 75 alberi vicino a Nablus e 32 a Qalqilyia mentre non daranno più frutto 155 piante a Jenin. Ma allargando lo sguardo dalle fronde della straordinaria pianta di ulivo a tutta la Palestina, è evidente che la tragedia è molto più profonda della superficie di questa terra violata. Scende nelle radici di questo popolo, nella sua storia e nel suo futuro, assiste a crimini diventati assoluta normalità, e registra violazioni ben più pesanti dell’artticolo 147 della Convenzione di Ginevra (che vieta ‘la distruzione e l’appropriazione di beni, non giustificata da necessità militari e compiute su scala illegalmente ed arbitrariamente’). Ma l’importante è far finta di nulla, esattamente come i deplorevoli 150 nostri parlamentari italiani che schierandosi contro il riconoscimento della Palestina, fingono di non sapere che se c’è un Paese al mondo che sistematicamente viola le leggi internazionali questo è proprio Israele. Trascurando la lista delle risoluzioni totalmente disattese si scandalizzano della richiesta di riconoscimento, che “violerebbe la legge internazionale e metterebbe a repentaglio tutti gli sforzi internazionali per la pace affermati nelle risoluzioni 242, 338, 1850 del Consiglio di Sicurezza”.
Ma in Israele sta facendo tremare questo ricorso alle leggi internazionali, anche perchè il quotidiano Haaretz ha annunciato che la colonizzazione potrebbe essere portata alla Corte Internazionale di giustizia dalla Palestina, visto che il trasferimento di popolazione civile (come i coloni) all’interno di un territorio occupato militarmente costituisce un crimine di guerra.
In questo numero proseguiamo ad offrirvi importanti documenti che preparano questo evento (in particolare traduciamo per l’Italia la dichiarazione dell’autorevole organizzazione Sabeel) ma non si offendano i politici che in queste ore sventolano la bandiera palestinese, da Romano Prodi (“Serve un’azione rapida e il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme capitale”) al presidente turco Erdogan (“Facciamo in modo che la bandiera palestinese sventoli alle Nazioni Unite”) se preferiamo ricordare tre sconosciuti amici incontrati nelle scorse settimane, Noor, Ariel e Mustafà. Per loro vorremmo che le Nazioni Unite avessero tutto il coraggio necessario per compiere questo atto simbolico dovuto da decenni.
Chiacchierando con Noor a Ramallah, sembrava di sentire anche sulla nostra pelle il fremito di quello che per lui sarà “un momento storico, una grande novità che costringerà Israele a guardarci negli occhi. Siamo in piedi e ancora una volta diciamo al mondo che vogliamo esistere come popolo oggi e per sempre”.
Ariel, giovane israeliano incontrato tra le tende degli indignados di Gerusalemme, sente “tutta la paura degli israeliani che, più che temere come dicono, una reazione violenta dei palestinesi, percepiscono che forse è davvero arrivato il momento della verità e dovranno ammettere la nostra responsabilità per l’occupazione e la colonizzazione della Palestina”.
E il vuoto desolante che riempie gli occhi di Mustafà, giovane beduino che ci mostra il minaccioso “avvertimento” delle ruspe che hanno già cominciato a demolire la scuola di copertoni del suo villaggio di Khan Al Ahmar, vorremmo riempirlo del nostro solidale affetto e della nostra ostinata denuncia, anche solo tappezzando questa newsletter di foto della famosa scuola di pneumatici. C’è qualcuno che potrebbe inserire anche all’ultimo momento queste foto nelle cartelline dei rappresentanti all’Assemblea dell’Onu?

BoccheScucite

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