Quale gioia, mi dissero, andremo alla casa del Signore…
Il canto risuona festoso nel pullmino mentre ci avviciniamo a Gerusalemme; le mura della città vecchia ci appaiono già da lontano, nascoste dal luccicare dei palazzi di vetro e dai pali della luce. Gerusalemme, la Città santa, città dai mille volti e dalle mille identità: le strade larghe e occidentali, le vie affollate e il mercato arabo, la porta di Damasco, le file di pullman di pellegrini contriti e forse un po’ ciechi. Pietre chiare e austere circondano la parte più centrale e antica, con i suoi quattro quartieri e le sue innumerevoli chiese, moschee, sinagoghe, templi per ogni religione ma per un unico Dio; queste mura ci parlano di una storia sacra e profonda, di difesa, protezione, potenza. Le mura sbreccate portano i segni dei proiettili e dei conflitti che hanno violentato questi luoghi nell’ultimo secolo: eppure resistono, testarde, custodi di un mistero che si perde fra le tortuose vie al loro interno.
Ma intorno a questi baluardi lo sguardo può spaziare lontano, nell’ampio panorama circostante: il bianco delle case, le colline aride, le sparute chiazze di verde aggrappate ad un terreno avaro, le strade; e, proprio sullo sfondo, una nota stonata, uno sbaglio palese, un qualcosa di artificioso e finto, come gli scenari di uno spettacolo. Un muro. Il muro, che serpeggia scaltro fra gli angoli delle case, nascondendosi, giocando con lo sguardo del pellegrino, che da Gerusalemme non lo deve vedere, ma riuscendo difficilmente a dissimulare la sua presenza. E allora dalle mura si passa a un muro, da una divisione della storia, a un qualcosa che della storia è più che altro errore e aberrazione. Ci si guarda intorno, si capisce che forse quel muro che è la fuori, in realtà serpeggia anche dentro la città, fra le sue vie, i suoi incensi;
c’è un muro nella strada per salire alla spianata delle moschee, un muro fatto di costruzioni con travi vicine, che non permettono di guardare giù verso i fratelli ebrei che pregano, un muro fatto di scudi di plastica antisommossa, lasciati vicino al passaggio, segno di una violenza sempre pronta a risorgere;
c’è un muro sui tetti della città vecchia, dove una casa israeliana ha il tetto recintato, chiuso, difeso da grate e filo spinato, per proteggersi dalle case intorno di fratelli arabi; c’è un muro negli occhi del bimbo che dietro questa protezione gioca su quel tetto;
c’è un muro invisibile che divide un quartiere dall’altro, i mercati gioiosi e colorati dalle vetrine luccicanti di gioielli;
c’è un muro nei diversi altari delle diverse confessioni, nei luoghi santi dove Gesù è morto ed è stato seppellito, un muro in una scala posata e mai rimossa per mantenere un assurdo status quo.
C’è un muro che serpeggia fra le persone, i luoghi, le confessioni, che non permette che si riconosca la santità e la vera emozione di questi luoghi. Un muro che rende impossibile ad un Dio riconosciuto come presente da tutti, di manifestare appieno la sua vicinanza all’uomo, qui, ad Al Quds, a Gerusalemme.
E il muro non si ferma solo al confine della Città Santa, serpeggia anche più in basso, lungo la strada che porta a Gerico, accompagna il cammino dei Samaritani di ieri e di oggi. Il Muro colpisce anche i beduini di Jahalin: vivono nella polvere, sul ciglio della strada, nell’indifferenza delle macchine che sfrecciano veloci al loro fianco. Il sorriso dei bambini, la loro scuola di gomme e copertoni, espediente per evitare le demolizioni israeliane, le mani e i piedi, il bianco del loro sorriso e della loro gioia, tutto questo è diviso da un muro invisibile, di 5 minuti di macchina.
La Colonia di Ma’ ale Adummim, con le sue strade pulite, i suoi giardini curati, i suoi centri commerciali, le sue piscine, i suoi musei, in un contrasto stridente con il dramma che, pochi metri più sotto, accompagna la vita dei loro sfortunati vicini.
Un muro di diversità e Ingiustizia. Un muro che rende necessaria la presenza e la forte voce dei Samaritani di oggi.
Perché la nostra vita è una strada, che scende da Gerusalemme a Gerico…
Aboud, 14 Agosto 2010
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