Riforma sospesa in Israele

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Articolo pubblicato originariamente da Internazionale – La newsletter sul Medio Oriente a cura di Francesca Gnetti

“Meglio tardi che mai”, scrive il Jerusalem Post in un editoriale, commentando la decisione annunciata dal primo ministro Benjamin Netanyahu il 27 marzo di sospendere la riforma della giustizia proposta dal suo governo di estrema destra, dopo dodici settimane di crisi politica sempre più grave. Durante un discorso televisivo tenuto in serata, dieci ore dopo rispetto alle previsioni, Netanyahu ha detto di voler prendere del tempo per cercare un compromesso con gli avversari politici. Due dei capi principali dell’opposizione, Benny Gantz e Yair Lapid, si sono detti disponibili a dialogare con il governo, nel quadro della mediazione proposta settimane fa dal presidente Isaac Herzog. 

In seguito all’annuncio il più grande sindacato del paese, Histadrut, ha annullato lo sciopero generale decretato la mattina, che aveva paralizzato il paese, con il blocco delle attività di negozi, banche, ospedali, università e dell’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Lo sciopero è stato accompagnato da grandi manifestazioni, organizzate già dal giorno precedente, quando Netanyahu aveva destituito il ministro della difesa Yoav Gallant, che si era dichiarato contrario a procedere con la riforma. Gli organizzatori della contestazione più grande della storia del paese, cresciuta di settimana in settimana, hanno detto che continueranno a protestare fino a quando il progetto non sarà ritirato completamente. Secondo loro, se sarà approvata, la legge limiterà i poteri della corte suprema, mettendo in pericolo i princìpi della democrazia. Nella serata del 27 marzo per la prima volta sono scesi in piazza anche i sostenitori della riforma davanti alla corte suprema a Gerusalemme. Alcuni video mostrano gli esponenti dei gruppi di estrema destra che attaccano alcuni passanti palestinesi. A scatenare le violenze sono stati anche gli esponenti di La Familia, un gruppo ultras sostenitore della squadra di calcio Beitar Gerusalemme.
 Il Mondo è il podcast quotidiano di Internazionale, dal lunedì al venerdì, tutte le mattine dalle 6.30. Oggi: in Israele Netanyahu prende tempo e pensa alla prossima mossa. La Corea del Sud guadagna miliardi di dollari dall’invasione dell’Ucraina. Ascolta la puntata.Il premier ha raggiunto un accordo con il suo alleato Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale e leader del partito di estrema destra Potere ebraico, che aveva minacciato di dimettersi se la riforma fosse stata rinviata. In cambio del suo consenso, Ben Gvir ha ottenuto il via libera alla creazione di una guardia nazionale che sarà sotto il controllo del suo ministero. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno avvertito del pericolo rappresentato da una “milizia armata privata direttamente sotto il controllo di Ben Gvir” che “agirà soprattutto nelle città miste e soprattutto contro la popolazione araba” e contro la protesta.
 Gerusalemme, 27 marzo 2023. (Kobi Wolf, Bloomberg/Getty Images)Nel suo editoriale del 27 marzo, Haaretz scrive che se anche il motivo ufficiale dato da Netanyahu per la sospensione della riforma è “evitare una spaccatura” nella popolazione e ottenere “un consenso più ampio”, la verità è che “l’unico obiettivo del rinvio di due mesi è salvare il regime dell’enorme protesta civile che gli si è sollevata contro”. E conclude invitando a mantenere alta la pressione sul governo: “Nei prossimi due mesi diventerà chiaro se Israele si è fermato prima degli abissi o se Netanyahu e i suoi pericolosi amici insisteranno nel distruggere il paese”. 

Secondo Haggai Matarche scrive sul sito indipendente israeliano +972 Magazine, “la domanda ora è: dove porterà tutto questo? Che significa per il futuro della politica israeliana? E, cosa forse più importante, che comporterà per i palestinesi?”. Matar prevede tre possibili scenari: nel primo Netanyahu rinuncia alla riforma, causando il ritiro del sostegno dell’estrema destra e la caduta del governo; nel secondo insiste e aggrava la crisi attuale. Il terzo è quello più plausibile: “il centro e la destra rinnovano un’alleanza, verosimilmente senza Netanyahu, per cercare di stabilizzare il paese”. Questo sistema continuerà a promuovere l’apartheid “come pilastro centrale della raison d’être d’Israele” e lascerà da parte le questioni dell’occupazione e della supremazia ebraica. È proprio per questo, continua Matar, che i cittadini palestinesi d’Israele non si sono uniti al movimento di protesta e che ne sono stati esclusi fin dall’inizio: “La ‘democrazia’ alla base delle proteste è, dunque, una concezione del termine interamente ebraica. È un riflesso tragico e irritante di quanto profondamente il suprematismo ebraico scorra nelle vene della politica israeliana”. Nonostante questo, conclude Matar, la mobilitazione senza precedenti ha sollevato un inedito dibattito su temi come “democrazia”, “ebraismo” e soprattutto “uguaglianza”. Alla fine questo potrebbe avvicinare i manifestanti di oggi al blocco anti-apartheid: “Si può sperare che chi ha combattuto duramente sotto la bandiera della democrazia e dell’uguaglianza finisca per adottare queste idee fino in fondo. E questo potrebbe comportare notevoli promesse per il nostro futuro qui”. 

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