Monday, 19 September 2011 07:10 Emma Mancini (Alternative Information Center)
Amjad Mitri dell’organizzazione palestinese Badil all’AICafè di Beit Sahour
“Il 70% dei palestinesi è rifugiato. E, chi non lo è, rischia di diventarlo presto”. Amjad Mitri, dell’associazione palestinese Badil, è molto chiaro: l’occupazione israeliana non ha mai smesso di creare nuovi profughi. Per questo si deve parlare di ‘ongoing displacement’.
“I rifugiati palestinesi e i palestinesi internamente dislocati (ovvero, coloro che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case in Israele e Territori Occupati e a muoversi in altra zona interna) – spiega Amjad Mitri all’Alternative Information Center – sono il caso quantitativamente più grande del mondo. E il loro numero continua ad aumentare: dal 1948 ad oggi le autorità israeliane stanno portando avanti una politica chiaramente volta a trasferire più palestinesi possibile fuori dal territorio. È la giudaizzazione della Palestina, è un obiettivo demografico”.
Secondo i dati forniti dall’associazione Badil, organizzazione palestinese da anni impegnata nella difesa dei diritti dei rifugiati, i profughi palestinesi solo circa sette milioni: si stima che nel mondo due rifugiati su cinque siano palestinesi. A questi vanno aggiunti 450mila palestinesi internamente dislocati. In totale, si tratta del 70% dell’intero popolo palestinese.
“Nel 1948, dopo la guerra che ha condotto alla nascita dello Stato di Israele – continua Amjad – l’esercito israeliano e il movimento sionista hanno agito seguendo tre diverse tattiche di trasferimento forzato. Primo, la distruzione dei villaggi palestinesi: i militari entravano nei villaggi, costringevano la popolazione a lasciare le proprie case e radevano al suolo tutte le abitazioni. Secondo, uccisioni di massa della popolazione residente. Terzo, massacri in un solo villaggio al fine di spaventare quelli vicini e spingere così i palestinesi a lasciare volontariamente le proprie case. In tutti e tre i casi, l’obiettivo dichiarato era quello di impedire un eventuale ritorno dei rifugiati”.
Foto di un archivio storico raffiguranti rifugiati palestinesi del 1948
Due anni dopo, il neonato governo israeliano ha emesso la nota “legge degli assenti”, la Absentees’ Property Law: “Secondo la normativa, in vigore tutt’oggi, il proprietario di una terra o di una casa perde ogni diritto se non utilizza o vive in quella terra o in quella casa. Le proprietà passa allo Stato. È facile comprendere come un simile trucco sia volto esclusivamente a evitare il ritorno dei rifugiati: prima li hanno costretti ad andarsene e poi gli hanno detto ‘Siete assenti, non vi prendete cura dei vostri beni, quindi li confischiamo’. Va sottolineato il fatto che la legge in questione si applica esclusivamente ai non ebrei”.
Una legge valida ancora oggi che danneggia soprattutto i palestinesi di Gerusalemme Est, non considerati cittadini israeliani, ma meri residenti: nel caso rimangano fuori da Gerusalemme Est per ragioni di lavoro o studio, perdono il diritto di residenza e quindi i diritti di proprietà.
“Nel 1965 – spiega ancora Amjad Mitri all’AIC – le autorità di Tel Aviv hanno completato il lavoro con la Planning and Building Law. Hanno agito in questo modo: ingegneri e geometri sono stati inviati in tutto il territorio dello Stato di Israele per redigere mappe accurate delle diverse comunità, città e villaggi. Dei 250 villaggi palestinesi esistenti, gli ingegneri ne hanno registrati solo la metà, 125. A quel punto è intervenuta la legge: i villaggi non riconosciuti sono stati considerati illegali, costruiti senza il necessario permesso e sono stati oggetto di demolizioni continue, in atto ancora oggi. Inoltre, la stessa legge vieta di costruire nuove abitazioni nei villaggi riconosciuti e non, privi del necessario permesso. Nessun permesso è stato mai accordato: dal 1965 nessuna nuova comunità si è aggiunta a quelle 250 e quelle esistenti non hanno la possibilità di espandersi a causa della mancanza dei permessi di costruzione”.
Alla minaccia concreta delle demolizioni va aggiunta la totale mancanza di servizi pubblici essenziali nei villaggi non riconosciuti: il governo di Tel Aviv non ha mai fornito tali comunità di acqua corrente, elettricità, servizi di trasporto pubblici, scuole, servizi sanitari.
Campo profughi palestinese al confine tra Iraq e Siria (foto Eva Philipp)
Ed oggi? Israele non si è mai fermato e negli ultimi anni sono intervenute nuove leggi volte a ridurre costantemente il numero di palestinesi presenti e incrementare quello degli ebrei. Il “quiet transfer”, il trasferimento silenzioso continua.
“Prima di tutto, la legge del ritorno per gli ebrei di tutto il mondo – continua Amjad – Secondo la normativa, ogni ebreo cittadino di un qualsiasi Stato ha il diritto di chiedere la cittadinanza israeliana e di trasferirsi subito in Israele. Da decenni, le autorità di Tel Aviv hanno aperto uffici in ogni parte del mondo: basta registrarsi, dimostrare di essere ebrei e in pochi giorni ci si può trasferire in Israele provvisti di una nuova casa. Dalla caduta dell’Unione Sovietica, con questo strumento, Israele ha fatto arrivare oltre un milione di russi ebrei”.
“In secondo luogo, la Nationality Law. Israele è l’unico Paese al mondo a fare una differenza tra cittadinanza e nazionalità. Secondo la legge, hanno nazionalità israeliana sono gli ebrei perché quello di Israele è uno Stato sionista. Si fa quindi una concreta differenza tra arabi ed ebrei: i primi sono solo cittadini, i secondi hanno anche la nazionalità. La differenza sta nella possibilità di accedere agli alti gradi dell’esercito e del governo di Tel Aviv: solo chi ha la nazionalità può diventare premier, ad esempio”.
L’effetto sul terreno di simili normative è l’espulsione forzata dei palestinesi dalle proprie terre, un trasferimento che prosegue ancora oggi, in primis attraverso gli ordini militari di demolizione di case e di confisca delle terre e l’impossibilità di ottenere nuovi permessi di costruzione, sia nello Stato di Israele che in Cisgiordania.
“Per questo – conclude Amjad Mitri – dico che ogni palestinese rischia di diventare un rifugiato o un dislocato internamente. L’obiettivo è spezzare le comunità palestinesi e incrementare il numero di ebrei presenti, così da sbilanciare il tasso demografico. Il problema è politico: non si tratta di profughi provocati da catastrofi naturali, come un terremoto o uno tsunami. Si tratta di profughi politici, creati da un movimento politico che è quello sionista. Perciò la soluzione non può che essere politica: i rifugiati potranno tornare nella loro terra solo quando Israele perderà il suo carattere sionista. Solo la fine dello Stato dell’apartheid e della discriminazione razziale potrà condurre ad una reale e giusta democrazia. Per tutti, arabi ed ebrei”.
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