Ritorno a Beit Hanoun

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Pubblicato il  da Admin2

8 Agosto 2014 – Charlie Andreasson – Gaza, Palestina occupata

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Siamo tornati a Beit Hanoun quasi due settimane dopo che l’esercito israeliano ci ha tenuto prigionieri e bombardati per 13 ore.
Era il secondo giorno delle 72 ore di cessate il fuoco e nelle strade e nei vicoli c’erano molto più traffico e molte più persone che durante le ultime quattro settimane.

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Rina Andolini, una volontaria inglese, ed io siamo andati verso l’ospedale, ormai chiuso; siamo stati immediatamente riconosciuti da alcuni uomini fuori dai cancelli. Uomini che l’ultima volta che ho visto indossavano il loro camice verde dell’ospedale ed erano completamente esausti.

Ho chiesto se per favore potevamo entrare di nuovo e dare un’occhiata alla devastazione ed un uomo ha subito preso la chiave, tolto la catena e aperto la porta per noi.
Tutto sembrava uguale a quel mattino in cui finalmente eravamo riusciti ad andarcene, niente sembrava essere stato rimosso. Vetri e calcinacci erano ancora sparsi sui letti e sui pavimenti. Ora però l’androne dove avevamo trascorso quella lunga notte era desolato. I volti di tutte le donne con i loro occhi chiusi, non erano più lì; i bambini sul materasso ai miei piedi erano spariti. Solo detriti.

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Al piano di sopra invece, qualcuno aveva preso il materasso del letto sotto l’elefante sorridente dipinto sul muro; un gatto miagolava tra l’intonaco caduto ed i vetri rotti. Il buco nel muro c’era ancora: lì in piedi, di fronte ad esso, potevo misurare ad occhio, la distanza da cui il carro armato aveva sparato la granata. 30 metri, non di più.
Proprio accanto all’ospedale ed al parco giochi per bambini, c’è il cimitero.
Era chiaramente stato colpito da fuoco pesante. Resti di proiettili sparsi e polvere di guerra coprivano le poche lapidi ancora intere. In fondo al cimitero, alcuni uomini stavano scavando. Ho preso una pala e li ho aiutati a scavare e togliere delle pietre mezzo metro sotto terra. Un altro corpo verrà posato là, accanto ad altri 2000 corpi che sono stati -ed altri saranno- sepolti nella terra.

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Non abbiamo partecipato al funerale e siamo andati alla adiacente moschea. Il grande lampadario era in mezzo al pavimento tra lo sporco e la polvere; come altrove, vetri frantumati ovunque. Abbiamo attraversato la moschea senza bisogno di passare da una porta.
Abbiamo incontrato una coppia con la loro figlioletta, sopra le rovine di quelle che un tempo erano case. Ci hanno invitato a casa loro, che all’interno è incredibilmente rimasta intatta: non ci sono però elettricità, acqua e servizi igienici funzionanti.
Siamo stati serviti con del tè da persone che non hanno quasi più nulla, loro stessi non hanno bevuto nulla e non hanno detto niente. E che cosa si poteva dire che non potesse già essere visto?
Alcuni giovani cercavano tra le macerie della loro casa. Vi sono salito anch’io ed ho raccolto alcuni bicchieri miracolosamente intatti: non c’era molto altro da recuperare.

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C’era un’altra famiglia non lontano da lì, con le cose recuperate, posate nel pianale di un camioncino. Mi hanno dato una pacca sulla spalla per aver riportato loro alcuni oggetti raccolti in un appartamento che ancora doveva essere pulito dallo sporco e dai detriti che giacevano sparsi. Ma non c’era tempo per quello, non potevano trattenersi a lungo. Mi hanno dato dell’acqua e mi hanno chiesto di dire quello che ho visto quando tornerò a casa.
Ma non ci sono parole per descrivere tutta la distruzione a cui queste persone sono obbligate a tornare, deve essere vissuto. Non ci sono parole per descrivere la vulnerabilità e l’esclusione dal mondo che queste persone vivono.
E probabilmente ancora altre gente dovrà vivere questa devastazione prima che riusciremo a comprendere che privare le persone dei loro diritti umani non può contribuire a garantire la sicurezza di altri. E che negare a qualcuno la propria dignità, non è da persone libere e illuminate.
Trad. F. S.

http://reteitalianaism.it/public_html/index.php/2014/08/08/ritorno-a-beit-hanoun/

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