I palestinesi di questo villaggio della Galilea nel 1948 furono «evacuati» dai militari con la promessa che presto sarebbero rientrati alle loro case. Non tornarono mai più.
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Gerusalemme, 18 maggio 2013, Nena News – «La legge israeliana permette agli abitanti di Iqrit di tornare al villaggio solo nella bara, per esservi sepolti, noi abbiamo deciso di farlo da vivi». Walaa Sbaid, giovane insegnante di 27 anni, ha deciso che avrebbe trascorso il 65esimo anniversario della Nakba (Catastrofe), tra ciò che resta della casa di suo nonno, tra quelle pietre che per lui raccontano più di mille libri, che sono una memoria indelebile. «E non ci starò solo oggi, ho deciso di realizzare il mio diritto al ritorno», spiega Sbaid che da qualche mese ha scelto, assieme ad un manipolo di amici, di vivere a Iqrit. Incurante dei divieti delle autorità che non hanno mancato di demolire il pollaio che avevano costruito. «È un mio diritto, è un nostro diritto stare qui, è il nostro villaggio», afferma perentorio.
Sbaid e i suoi compagni sono «profughi nella loro terra», discendenti degli abitanti di questo villaggio cristiano all’estremo nord della Galilea, che nel 1948 non finirono nei campi profughi in Libano, Siria o in Giordania come altri 750 mila palestinesi. Rimasero nella loro terra ma furono «evacuati» dai militari del neonato Stato di Israele con la promessa che sarebbero rientrati alle loro case nel giro di una quindicina di giorni. Furono trasportati a Rama e non tornarono mai più. Proprio come accade a migliaia di palestinesi di Eid Hud (ora villaggio per artisti israeliani) e tanti altri centri abitati. La vigilia di Natale del 1950 l’esercito israeliano trasformò in macerie tutte le case di Iqrit lasciando intatta solo la chiesa e il cimitero. L’anno successivo la Corte Suprema israeliana sentenziò il diritto degli abitanti a ricostruire il villaggio «in assenza di motivi di sicurezza». Le autorità di governo risposero decretando l’assoluta necessità di tenere lontani quei civili da Iqrit.
Nel 1953 furono distrutte anche le case del vicino Biram. Le terre dei due villaggi andarono alla costruzione di nuovi centri abitati per gli immigrati e non certo per i palestinesi rimasti nello Stato di Israele, che nel frattempo erano diventati, nella terminologia ufficiale, «arabo israeliani». Le battaglie legali non sono servite a nulla, le decisioni alla base della distruzione di Iqrit e Biram erano politiche, strategiche e nessun giudice può cambiarle. La memoria però è sempre viva, tramandata di generazione in generazione, appena scalfita dal tempo.
Lo dicono Walaa Sbaid e i suoi compagni «tornati» a Iqrit e tutti gli altri palestinesi in Israele, nei Territori occupati, nei campi profughi e nella diaspora, che da 65 anni chiedono giustizia, i diritti garantiti a tutti i popoli e che si ascolti anche la versione dei vinti e non solo dei vincitori. Non sorprende perciò che il 15 maggio i palestinesi siano scesi in strada ovunque, anziani e bambini. Non a «protestare» come si legge da qualche parte ma ad affermare la loro esistenza attraverso il perpetuarsi della memoria della Nakba. Nena News
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