REDAZIONE 28 APRILE 2013
di Phyllis Bennis
27 aprile 2013
Si parla quindi ancora di una “nuova” iniziativa degli Stati Uniti nella diplomazia israelo-palestinese. Abbiamo un nuovo segretario di stato. John Kerry sta facendo la spola tra Gerusalemme e Ramallah. Si prevede che le speranze nasceranno di nuovo.
Davvero? Si pensa che dobbiamo acclamare la possibilità che 21anni di fallimenti della diplomazia statunitense, potrebbero – potrebbero proprio – diventare 22? Non c’è alcuna indicazione che Israele sia più disponibile di quanto mai sia stata a smettere di violare la legge internazionale e le risoluzioni dell’ONU. Non ci sono prove che qualcuno dei circa 600.000 coloni illegali che violano la legge ogni mattino soltanto uscendo dal letto, sia affatto preoccupato di perdere o le case costruite illegalmente o la loro protezione e i loro privilegi garantiti dallo stato di Israele. Non c’ segno che si stia cancellando l’assedio di Gaza. E, cosa importantissima, che non ci sono cenni che gli Stati Uniti siano preparati a fare una qualche pressione per influenzare Israele perché metta fine a qualcuna di quelle violazioni.
Che cosa sta succedendo allora? Precedenti fughe di notizie si incentravano sull’apparente decisione di Kerry di rivedere il piano dell’Arabia Saudita del 2002, noto come Iniziativa Araba di pace. Potrebbe essere interessante. Il piano, appoggiato da tutti i membri della Lega Araba, prometteva piena normalizzazione delle relazioni tra gli stati arabi e Israele e la fine ufficiale del conflitto, ma soltanto in cambio di un “completo” ritiro di Israele dal territorio che ha occupato nel 1967, il che significa tutta Gaza, tutta la Cisgiordania e tutta Gerusalemme est occupata. Richiedeva anche una “risoluzione giusta del problema dei rifugiati sulla base della Risoluzione ONU 194, che garantisce il diritto dei coloni palestinesi espulsi nel 1948-48 di ritornare nelle loro case in quella che è ora Israele.
Ma, cosa di importanza cruciale, in quelle stesse precedenti fughe di notizie, si riferiva che Kerry avesse proposto di risistemare l’Iniziativa araba che rifletta la solita formula di Stati Uniti/Israele: una soluzione con due stati con scambi. A Tel Aviv e a Washington questo vuol dire che Israele ottiene di annettere permanentemente i vasti blocchi di insediamenti grandi come città, a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, e anche la maggior parte della terra esistente controllata dagli insediamenti – lasciando sul posto tutti tranne forse poche migliaia dei circa 600.000 coloni. E, cosa fondamentale, Israele manterrebbe il controllo permanente di tutte le principali falde acquifere della Cisgiordania.
Iniziativa Araba di Pace
Quando è stata introdotta la proposta nel 2002, l’amministrazione di George W. Bush la ha annotato brevemente come un modo di “terminare il conflitto”. Essi hanno però ignorato gli obblighi che avrebbe imposto a Israele di porre fine alle fondamentali violazioni della legge internazionale, compresa l’occupazione, la negazione del diritto di ritorno e altro. Hanno trattato l’Iniziativa come se fosse un’offerta araba unilaterale per porre fine al conflitto in base ai termini di Israele e di Washington. E poi Washington ha messo del tutto da parte l’iniziativa araba.
Quindi l’ultima spiegazione di Kerfry circa la rivisitazione di quella proposta, significa poco, dato che sarebbe indebolita dall’amministrazione Obama per abbinare le richieste di lunga data di Stati Uniti e Israele per la legislazione del furto israeliano di terra e di acqua palestinese inerente al progetto degli insediamenti. Il punto di vista di Kerry, dell’Iniziativa, certamente è intesa per creare uno “stato” palestinese cui si nega una vera sovranità, il diritto di controllare i suoi confini, l’economia, lo spazio aereo, le acque di mare al largo, l’auto-difesa, ecc. Con quegli emendamenti, la riconsiderazione dell’iniziativa araba della pace reca poco conforto a coloro che sono impegnati in una pace vera, duratura, giusta e completa, basata sulla legge internazionale, i diritti umani e l’uguaglianza per tutti.
C’è una notazione interessante – Kerry ora osserva che la finestra per un accordo di pace completo che porti a uno stato palestinese, potrebbe cominciare a chiudersi. Non sono certo una rivelazione per chiunque legga le notizie – perfino i giornali tradizionali non sono stati in grado di nascondere l’espansione degli insediamenti legali ebraici nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est araba – il permanente assedio di Gaza, la continua negazione del diritto dei profughi palestinesi di ritornare a casa, il permanente status di cittadini di seconda categoria dei palestinesi di Israele.
ma se ora chiunque dall’interno sta scrutando fuori la bolla ufficiale di Washington per riconoscere la necessità di un approccio diverso per la diplomazia Israelo-Palestinese, va tutto bene. Se qualcuno alla Casa Bianca o al Dipartimento di stato, per non parlare del Congresso, comincia a rendersi conto che fare la stessa cosa ripetutamente, fare le stesse dichiarazioni fallimentari che “le due parti devono sedersi insieme, entrambe le parti devono fare dei compromessi, soltanto colloqui diretti tra le due parti possono portare alla pace”, come se questo fosse un negoziato tra uguali, come se fosse una disputa di confine tra Perù ed Ecuador, invece che tra una Potenza occupate potente, ricca, in possesso di armi nucleari e un popolo occupato che non ha potere, allora questa consapevolezza potrebbe significare l’inizio di un nuovo approccio.
Come ha osservato di recente lo storico palestinese Rashid Khalidi sul New York Times:
“Il ‘processo di pace’ è consistito nell’assecondare l’intransigenza di Israele verso la Palestina in cambio di obiettivi di politica estera collegati alla promozione della pace e della libertà palestinese….Se gli obiettivi di tutto il processo di pace non pongono fine all’occupazione, rimuovendo gli insediamenti e provvedendo a una vera autodeterminazione palestinese, allora quale è lo scopo di fare finta di iniziarlo di nuovo?”
Una revisione reale
Finora non abbiamo visto alcuna indicazione da Kerry – o dal presidente Obama, che tale revisione sia in corso. Lo scorso giugno, durante un forum pubblico inaspettatamente schietto, Ben Rhodes, il migliore autore dei discorsi di Obama, e vice consigliere per la sicurezza nazionale, è stato contestato per la sua dichiarazione che era una grande notizia che i colloqui bilaterali tra i negoziatori israeliani e palestinesi probabilmente sarebbero ricominciati. Nessuno ha citato direttamente la famosa battuta di Einstein sulla definizione della follia di fare ripetutamente la stessa cosa, aspettandosi risultati diversi. Quando però gli hanno chiesto perché la medesima diplomazia che ha fallito per così tanti anni era probabile che non ottenesse alcun risultato diverso, la risposta di Rhodes che sembrava profondamente attesa, è stata: “non c’è alcuna alternativa!”
Aveva torto. L’alternativa è di cambiare la politica statunitense. Potremmo cominciare mettendo fine alla politica attuale basata su un impegno decennale di 30 miliari di dollari di aiuti a Israele; un rifiuto di insistere che l’arsenale nucleare israeliano che non si ammette esista, sia sottoposto a ispezione internazionale; un impegno a proteggere Israele alle Nazioni Unite da qualsiasi responsabilità per la violazione della legge internazionale e dei diritti umani, assicurando quindi l’impunità di Israele per tali violazioni; la sponsorizzazione di un “processo di pace” fondato sulla salvaguardia del dominio strategico, economico e militare sulla Palestina e i palestinesi.
Una politica nuova, diversa, sarebbe invece basata su quello che ai funzionari di Washington, specialmente a quelli dell’amministrazione Obama piace definire come i “nostri valori” – non il militarismo e l’arroganza nazionale, che ha di fatto modellato la politica estera americana per 200 anni, ma i valori americani verosimili di giustizia e uguaglianza. Questo significherebbe porre fine a tutti gli aiuti per Israele (il 26° paese più ricco del mondo) fino a quando non ponga fine alle sue violazioni della legge internazionale e dei diritti umani, rifiutandosi di permettere quelle violazioni, ponendo fine all’eredità della protezione di Israele da parte degli Stati Uniti all’ONU, nella Corte Criminale Internazionale e altrove e permettendo che prenda forma un processo diplomatico internazionale, non controllato dagli Stati Uniti. Questa nuova diplomazia, come la ha descritta alla libertà, l’uguaglianza, e l’essere uno stato.
Per parafrasare le parole finali di Khalid: “non c’è altro modo”.
Phyllis Bennis è socia dell’Institute for Policy Studies ( Istituto di Studi politici). Tra i suoi libri ci sono:Challenging Empire: How People, Governments and the UN Defy US Power, [Sfidare l’impero: come il popolo, i governi e l’ONU si oppongono al potere degli Stati Uniti] che tratta dell’eredità delle proteste del 15 febbraio 2003.
E’ stata nel comitato direttivo della coalizione United for Peace & Justice che ha contribuito a organizzare la giornata del 15 febbraio 2003.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/chellenging-einstein-kerrys-new-diplomacy-in-the-middle-east-by-phyllis-bennis
Originale: Aljazeera
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY – NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/10608
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