REDAZIONE 22 GENNAIO 2013
di Richard Falk – 21 gennaio 2013
La scorsa settimana ho partecipato a un congresso illuminante sulla Siria, patrocinato dal nuovo Centro di Studi sul Medio Oriente che fa parte della Scuola di Studi Internazionali Josef Korbel presso l’Università di Denver. Questo Centro è stato creato di recente e opera sotto l’eccellente guida di Nader Hashemi e Danny Postel, che hanno in precedenza curato la migliore raccolta di letture sulla Rivoluzione Verde in Iran, pubblicata sotto il titolo “THE PEOPLE RELOADED” [Di nuovo il popolo].
Il congresso ha riunito un insieme di specialisti della Siria, di attivisti siriani e di molti di noi che abbiamo un interesse più generale al conflitto nella regione, nonché ai diritti umani e in quanto partecipanti agli accesi dibattiti degli anni recenti sulle virtù e i difetti degli “interventi umanitari”, cioè quella che oggi è chiamata, nei circoli dell’ONU e tra i liberali, la “Responsabilità della Protezione” o “R2P”. Sono arrivato all’incontro con un’inclinazione piuttosto forte a presentarmi come uno scettico consolidato della R2P, considerandola come un cinico eufemismo geopolitico di quello che Noam Chomsky aveva etichettato come “umanitarismo militare” nel contesto della controversa Guerra del Kosovo del 1999. Sin dalla Guerra del Vietnam ho guardato con sospetto alle pretese occidentali di usare la forza nel non-occidente postcoloniale. Appoggio la presunzione a favore del non intervento e l’autodeterminazione, entrambi norme fondamentali della legge internazionale. Ma ho lasciato il congresso insoddisfatto della mia posizione, cioè che nulla si possa o debba fare a livello internazionale per contribuire a far cessare la violenza in Siria o per assistere la lotta del popolo siriano. Mi sono convinto che la solidarietà umana nei confronti delle traversie del popolo siriano sia profondamente compromessa dal sostegno alla passività di fronte alla criminalità del governo di Damasco, anche se resta estremamente difficile individuare cosa si possa fare che sia davvero d’aiuto.
Sullo sfondo immediato del dibattito sulla politica siriana ci sono i cattivi ricordi della diplomazia ombra utilizzata dagli Stati Uniti e da numerosi alleati europei nel marzo del 2011 per ottenere l’appoggio del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite alla creazione di una zona d’interdizione al volo per proteggere la popolazione assediata e in pericolo della città libica di Bengasi. Quello che è seguito dall’inizio della missione autorizzata dall’ONU è stato uno scandaloso disprezzo del limitato mandato di proteggere la popolazione di una città da un massacro minacciato. Al suo posto l’iniziativa della NATO si è imbarcata in una missione NATO concertata di cambiamento di un regime che è finita con l’indecente esecuzione del dittatore libico. Ciò che la NATO si è proposta di fare è stato non soltanto dimentico della sovranità libica; è stato inequivocabilmente un deliberato e spettacolare ampliamento della missione autorizzata, che comprensibilmente ha fatto infuriare gli autocrati di Mosca. Si sarebbe certamente potuta sostenere la tesi che al fine di proteggere il popolo libico era necessario liberare il paese dal regime di Gheddafi, ma tale tesi non è mai stata sviluppata nel dibattito presso il Consiglio di Sicurezza, e non sarebbe mai stata accettata. Su uno sfondo simile l’ampio divario tra quanto era stato approvato dal voto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e quanto è stato fatto in violazione del mandato, è stato percepito come un tradimento della fiducia nel contesto del Consiglio di Sicurezza, particolarmente da parte dei cinque governi che si erano opposti ad approvare un mandato più ampio per l’intervento, governi che erano stati ingannevolmente indotti ad astenersi sulla base del fatto che l’autorizzazione dell’ONU era limitata a una singola missione straordinaria d’emergenza.
La diplomazia internazionale essendo quella che è e che è stata, non dovrebbero costituire una sorpresa e certamente non dovrebbero esserci superbe lezioni moralistiche impartite da diplomatici occidentali in reazione agli atteggiamenti di rifiuto assunti dalla Russia e dalla Cina in tutta la crisi siriano. Naturalmente due torti non fanno una ragione e così è anche in questo caso. La flagrante violazione, da parte della NATO, del mandato ONU per la Libia non va certamente rimediata a spese del popolo siriano. Sotto questo aspetto è deplorevole che quelli che decidono la politica a Mosca e a Pechino stiano mostrando indifferenza per la gravità dei grandi crimini contro l’umanità, perpetrati principalmente dal governo di Assad, così come per gli effetti catastrofici, nazionali e regionali, di una continua guerra civile su larga scala in Siria. Il dispiegarsi della tragedia siriana, che ha già causato più di 60.000 morti confermati, un milione di rifugiati, fino a tre milioni di profughi interni, una carestia che infuria, stenti e pericoli quotidiani per la maggior parte della popolazione e diffuse devastazioni urbane, sembra quasi certamente destinato a proseguire nei mesi a venire. Esiste anche una distinta possibilità di un’intensificazione della violenza mentre una battaglia decisiva per il controllo di Damasco sta assumendo grandi proporzioni. Un comportamento minimamente responsabile da parte di ciascuno dei grandi governi presso l’ONU, in una situazione simile, dovrebbe comportare al minimo una volontà condivisa e credibile di abbandonare pose geopolitiche e di esercitare ogni pressione possibile per far cessare le violenze.
Alcuni suggeriscono che un effetto di questo stallo geopolitico all’ONU sia che molti siriani sono costretti a sacrificare le loro vite e a mettere a rischio l’esistenza stessa del loro paese. Questo tipo di ‘risarcimento’ per il comportamentoultra vires della NATO in Libia è moralmente inaccettabile e politicamente imprudente. Al tempo stesso è ben poco ragionevole presumere che l’ONU avrebbe potuto por fine al conflitto siriano in modo appropriato se il Consiglio di Sicurezza fosse stato capace di parlare con una voce sola. Ciò sopravvaluta l’efficienza dell’ONU e sottostima la complessità della lotta in Siria. In simili circostanze è anche diversivo scaricare sulla testarda insistenza di Russia e Cina – che una soluzione in Siria non dovesse essere basata sul gettare Assad sotto l’autobus – le frustrazioni associate all’incapacità di fare qualcosa di efficace per aiutare le forze ribelli a vincere rapidamente o per imporre un cessate il fuoco e un processo politico.
Il conflitto siriano sembra meglio da interpretare come una questione di vita o di morte non solo per il regime al governo, bensì per l’intera comunità alawita (stimata nel 12% della popolazione di siriana, di circa 23 milioni), assieme al suo sostegno tra le altre vaste minoranze siriane (cristiani, 10% e drusi, 3%) e per un ragguardevole segmento del mondo imprenditoriale urbano che teme più ciò che probabilmente seguirà Assad che Assad stesso. Date queste condizioni, ci sono pochi motivi per presumere che una posizione unificata dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza avrebbe avuto, in una qualsiasi fase dei mesi violenti, una qualsiasi prospettiva realistica di indurre le parti siriane ad abbandonare le armi e ad accettare di rischiare un compromesso. Le origini del passaggio dalle dimostrazioni militanti anti-regime all’insurrezione armata sono da rintracciare, più convincentemente, nell’utilizzo di proiettili veri da parte delle autorità di governo e delle forze armate contro i dimostranti della città di Daraa dal 15 marzo 2012 in poi, provocando molti morti. Molti sono stati arrestati nelle strade di Daraa con rapporti confermati di torture ed esecuzioni sommarie e da quel momento in poi non c’è stato nessun abbandono della violenza da parte di nessuno degli schieramenti. Kofi Annan, dimessosi da Inviato Speciale dell’ONU/Lega Araba, ha manifestato nel gennaio 2013 il suo scontento nei confronti di entrambi gli attori esterni, criticando Washington per la sua insistenza perché qualsiasi transizione in Siria fosse preceduta dalla rimozione dal potere di Bashar al-Assad, una precondizione che sembra presupporre una vittoria degli insorti, piuttosto che operare per una soluzione negoziata.
Senza una maggiore pressione diplomatica di entrambi i delegati geopolitici, la guerra in Siria probabilmente continuerà e sarà una guerra con conseguenze disastrose. Non c’è mai stata una seria volontà di risolvere i problemi della Siria attraverso un attacco guidato dagli Stati Uniti nello stile dell’Iraq del 2003. Innanzitutto un intervento e un’occupazione efficaci in un paese delle dimensioni della Siria, specialmente se entrambi gli schieramenti continuano a ricevere, come fanno, significativi livelli di sostegno, sarebbero costosi in termini di vite e di risorse, incerti nel loro effetto complessivo sull’equilibrio interno delle forze e comporterebbero un coinvolgimento internazionale che potrebbe durare più di un decennio. Specialmente alla luce delle esperienze occidentali in Iraq e in Afghanistan, né Washington né l’Europa hanno la volontà politica di intraprendere una missione così incerta, specialmente quando gli interessi strategici percepiti sono ambigui e il risultato politico è dubbio. Inoltre l’11 settembre ha perso la sua rilevanza, anche se ancora insufficientemente, e la politica estera di Obama, anche se di gran lunga troppo militarista, lo è molto meno che nel corso della presidenza di George W. Bush.
Un altro approccio consisterebbe nel premere maggiormente per una vittoria degli insorti inasprendo le sanzioni contro la Siria o combinando un embargo agli armamenti contro il regime alla fornitura di armi all’opposizione. Anche questo sembra difficile da portare a termine e, anche se fosse fattibile, ci sono scarse probabilità che produca un risultato positivo. E’ difficile gestire una simile orchestrazione del conflitto in un modo che sia efficace, specialmente quando ci sono forti sostenitori di ambo gli schieramenti. Inoltre, nonostante molto incoraggiamento politico esterno, specialmente della Turchia, le forze anti-Assad non sono state in grado di produrre alcun genere di dirigenza che sia ampiamente riconosciuta internamente o esternamente, né l’opposizione è stata in grado di proiettare un’immagine condivisa di una Siria post-Assad. L’opposizione è chiaramente divisa tra orientamenti laici e islamisti e ciò accresce la sensazione di non sapere quello che c’è da aspettarsi in quello che viene chiamato “il giorno dopo”. Non abbiamo alcun modo affidabile per sapere se intensificare l’assistenza ai ribelli sarebbe efficace e, in tal caso, quale tipo di processo governativo emergerebbe in Siria e in quale misura sarebbe violento nei confronti di quelli che, direttamente o indirettamente, sono stati schierati con il governo durante la lotta.
In condizioni simili perseguire un cessate il fuoco e negoziati tra le parti continua a sembrare l’alternativa più razionale in mezzo a una quantità di opzioni cattive. Questo tipo di enfasi ha guidato gli sforzi diplomatici degli Inviati Speciali ONU/Lega Araba, Kofi Annan il primo e ora Lakhdar Brahimi, ma sinora ha prodotto solo delusioni. Nessuna delle parti sembra disposta ad abbandonare il campo di battaglia, in parte a causa dell’inimicizia e della sfiducia e in parte perché tuttora indisponibile a una soluzione che sia meno di una vittoria. Perché la diplomazia abbia una qualche possibilità di successo sarebbe necessario che entrambe le parti fossero convinte che un’ulteriore prosecuzione dello scontro è più pericolosa che porvi fine. Una simile convinzione non è stata raggiunta e non è neppure in vista.
Nonostante la logica di questi tentativi falliti, sembra problematico continuare ad affidare le speranze a questa diplomazia passiva sotto gli auspici dell’ONU. Essa assicura al regime governativo di Assad tempo e spazio per continuare a usare i mezzi a sua disposizione per distruggere i propri nemici interni, affidandosi agli armamenti ad alta tecnologia e a tattiche indiscriminate su vasta scala che stanno uccidendo e terrorizzando molti più civili che combattenti. Bombardare i quartieri residenziali delle città siriane con aviazione e artiglieria moderne fa apparire la sopravvivenza del regime molto più significativa per i governanti di qualsiasi impegno alla sicurezza e al benessere del popolo siriano e persino alla sopravvivenza del paese nel suo insieme vitale. E’ profondamente delegittimante e sta generando un coro crescente di richieste di incriminazione della dirigenza di Assad per crimini internazionali anche mentre infuria la guerra civile. Questo comportamento criminale esprime un’alienazione collettiva così acuta da parte della dirigenza di Damasco da ignorare i diritti normalmente goduti da una sovranità territoriale. Questi diritti normali comprendono la scelta di usare la forza in conformità alla legge umanitaria internazionale per sopprimere una rivolta o insurrezione interna, ma tali diritti non si estendono al commettere crimini genocidi del genere attribuibile al regime di Assad nei mesi recenti. Anche se si deve ammettere che il quadro è complicato dalla consapevolezza che non tutte le malefatte criminali sono dalla parte del regime, tuttavia lo è la grande maggioranza di esse. Le forze ribelli, certamente, sono colpevoli di molte atrocità inquietanti. Ciò è triste e disgraziato e induce anche confusione nel decidere con chi schierarsi. Nel complesso aggrava la condizione di vittima del popolo siriano che sta raggiungendo proporzioni catastrofiche perché rende più difficile la mobilitazione del sostegno internazionale ad azioni concertate.
Il mondo, essenzialmente, sta vergognosamente a guardare la disfatta siriana in uno sconcertante silenzio, ma è corretto chiedersi cosa si potrebbe fare che non si stia facendo. Sinora non è emerso alcuno scenario internazionale propositivo credibile. Ci sono ragionevoli suggerimenti di stabilire dei cessate il fuoco locali in considerevoli aree del paese sotto il controllo delle forze ribelli, per fornire cibo e medicinali alla popolazione attraverso “corridoi umanitari” e per muovere dei passi per migliorare la misera condizione dei rifugiati siriani attualmente sistemati in modo inadeguato e sottoposti a stenti inaccettabili in Libano e in Giordania. Tali passi dovrebbero essere compiuti, ma è improbabile che accelerino o modifichino l’esito del conflitto. Si può fare di più?
Raccomanderei ulteriormente una vasta politica di sostegno agli attivisti della società civile in Siria e all’estero che sono impegnati in un processo per un governo democratico inclusivo che affermi diritti umani per tutti e prometta soluzioni costituzionali che non favoriscano alcuna identità etnica o religiosa e diano priorità alla protezione delle minoranze. Ci sono sforzi incoraggianti in corso da parte di reti di attivisti siriani che operano prevalentemente da Washington e da Istanbul per proiettare una tale visione come programma nella forma di una Carta della Libertà che aspira a creare una piattaforma comune per il beneficio futuro dell’intero popolo siriano. Le probabilità di successo di questo tentativo di politica dal basso sembrano remote al presente per questi tentativi attivisti, ma meritano il nostro sostegno e la nostra fiducia. Come accade spesso quanto la politica normale è paralizzata, la sola soluzione a uno scontro tragico sembra essere utopistica fino a quando in qualche modo si materializza e diviene storia. Questa dinamica è stata esemplificata bene dal benigno risolversi dell’apartheid sudafricano nei primi anni ’90, contro ogni probabilità e contro l’opinione condivisa dagli esperti che si aspettavano che l’emancipazione delle vittime dell’apartheid sarebbe derivata, se mai lo fosse stata, solo dalla vittoria in una guerra lunga e sanguinosa.
Un’altra iniziativa che potrebbe essere intrapresa, con un grande potenziale positivo, ma contraria all’attuale orientamento della geopolitica occidentale, specialmente statunitense, sarebbe di cancellare dal tavolo l’opzione della guerra all’Iran. Un passo simile avrebbe quasi certamente un forte effetto di riduzione della tensione in rapporto con la diplomazia regionale e sarebbe un’iniziativa desiderabile da adottare del tutto indipendentemente dal conflitto siriano. Il modo migliore per farlo sarebbe si unirsi con gli altri governi della regione, Iran compreso, per patrocinare un quadro complessivo della sicurezza in Medio Oriente che comprenda una zona libera da armi nucleari, insistendo che Israele aderisca al processo. Naturalmente per gli Stati Uniti appoggiare una mossa simile scuoterebbe dalle fondamenta il suo incondizionato avallo a qualsiasi cosa Israele favorisca o faccia, e tuttavia sembrerebbe nel tempo essere anche di maggior beneficio alla sicurezza di Israele che non un coinvolgimento in una lotta permanente per conservare il predominio militare israeliano nella regione, negando contemporaneamente il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Se i dirigenti statunitensi riuscissero finalmente a decidersi a servire gli interessi degli Stati Uniti agendo come se la pace e la sicurezza d’Israele potessero essere realizzate soltanto realizzando finalmente i diritti del popolo palestinese in base alla legge internazionale, ci sarebbero molti probabili effetti positivi per il Medio Oriente e oltre. Come stanno le cose ora, la tetra situazione della regione è sottolineata dal grado in cui tali caute proposte restano nel campo dell’inimmaginabile e sono tenute fuori dai confini disciplinati del “dibattito responsabile”.
Se l’immaginazione della politica è limitata all’”arte del possibile”, allora reazioni costruttive alla tragedia siriana sembrano unicamente precluse. Solo quello che oggi sembra inverosimile ha qualche prospettiva di offrire al popolo siriano e alla sua nazione un futuro di speranza e dobbiamo avere la forza d’animo morale di impegnarci in ciò che riteniamo giusto anche se non possiamo dimostrare che alla fine prevarrà.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: http://www.zcommunications.org/on-syria-what-to-do-in-2013-by-richard-falk
Originale: Richardfalk.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/9466
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