Con uno straordinario bagaglio di esperienza nonviolenta condivisa e di appassionata voglia di non dimenticare le sfide della giustizia, é rientrato il team dei giovani che hanno lavorato con i palestinesi di Husan (Betlemme) nella raccolta delle olive. Marta, con questo report, ci fa partecipi della loro convinzione di dar voce ad una lotta di liberazione che attende tutti, come faremo anche nella prossima Giornata ONU del 30 novembre a Verona www.giornataonu.it
Smisurata resilienza di Marta Cossettini
Palestina è esercizio duro, intenso e amaro di libertà sottratta, di diritti negati, di serenità rapita.
È il Muro che ti insegue e, tetro e incombente, ti schiaccia.
Sono le colonie ebraiche che ti disturbano quando le vedi, tronfie e minacciose, che accerchiano i villaggi palestinesi e ne occupano illegalmente il territorio.
E percepisci tutto come incredibile, assurdo, surreale.
Ti ripeti: “Non è possibile… non è sostenibile… non è nemmeno pensabile, figuriamoci se può essere vivibile!” E invece tutto questo viene vissuto! Giornalmente, ininterrottamente, coraggiosamente.
Questi pensieri ti assillano forti, ti attraversano disordinati, mentre assisti frastornato alla quotidianità palestinese.
Incredulità, rabbia e impotenza sono gli stati d’animo che si succedono, si aggrovigliano, chiedono ordine, gridano domande, ma poi spesso rimangono senza risposte. Allora provi una morsa allo stomaco che si allenta nei momenti dell’incontro con i palestinesi che amano la loro terra quanto la loro madre. Quando ti siedi accanto a loro per dialogare o per condividere un pranzo, i visi sorridono e al riparo degli ulivi secolari le espressioni diventano più distese Pare possibile, per un attimo, accantonare la pesantezza di ingiustizie protratte, mai finite nella memoria di ogni famiglia. Sembra realizzabile, per un frammento di tempo, provare ad immaginare una vita “normale”, in cui il raggio d’azione non sia un perimetro limitato, militarizzato, blindato, in cui non si sia sottoposti a umilianti controlli e a divieti immotivati, in cui l’acqua e l’elettricità siano “ovviamente” accessibili, in cui i bambini possano andare a scuola senza la paura di essere aggrediti da coloni mascherati e i pastori possano pascolare le proprie greggi senza il timore di essere trattenuti e arrestati perché troppo vicini alle colonie ebraiche.
Già, le colonie ebraiche, che al solo scorgerle ti fanno riaffiorare alla mente quello che nei libri scolastici di storia hai studiato come modalità espansionistica attuata per esempio dall’antica Roma a scapito di altri popoli come, uno fra i tanti, i Sanniti: “I Romani smembrarono il popolo sannita, ne divisero il territorio e lo circondarono di colonie in cui stanziarono decine di migliaia di Romani, che così ottennero il loro campo e una vita economica indipendente. Tutta la penisola italica era sotto il dominio di Roma…”(1) . Questo accadeva nel IV sec. a.C. Sono trascorsi 2300 anni, si possono cambiare i soggetti e sostituire Israele a Roma e la Palestina al popolo sannita. Il risultato è esattamente il medesimo. Questo accade oggi e prosegue in maniera inarrestabile e subdola; è sconcertante per chi vede la situazione con i propri occhi, è lontano e inimmaginabile per chi non la conosce e per chi, colpevolmente indifferente, non si lascia interrogare dal volto umano della storia.
Il volto umano è l’aspetto determinante, imprescindibile della Palestina.
Sono i volti che si imprimono indelebili in te che sei lì per un tempo limitato, in te che, “libera” per nascita e provenienza, li osservi attonita e ti chiedi le ragioni di una così palese e sproporzionata ingiustizia.
Sono i volti che ti interpellano e che fanno emergere con fermezza il dovere di dire qualcosa, l’impossibilità di tacere e la vergogna di ignorare.
Sono i volti, lungo la strada verso il check-point, delle persone che salgono sui mezzi diretti alla disumana destinazione; che bevono un caffè alle 3, alle 4 del mattino, quando il mondo libero “normalmente” dorme, mentre loro devono mettersi in coda, in centinaia, togliersi le scarpe, le cinture, attendere i controlli, attraversare un non-luogo con 3 grandi cartelli gialli in 3 lingue – arabo, ebraico e inglese – che augurano una buona permanenza nel terminal, una partenza ed un rientro in pace!
Sono i volti di tanti uomini che, passate le verifiche con le impronte digitali, si riservano un tempo per se stessi, un tempo per la preghiera dell’alba.
Sono i volti silenziosi di coloro che resistono, che decidono che l’indice della loro fragilità è una smisurata resilienza.
Un poeta friulano, Pierluigi Cappello, parlando del dolore lo descrive come qualcosa che “può essere portato dentro intatto e inoffensivo, come un proiettile che si è fermato accanto al cuore” .
Forse è questa la smisurata resilienza dei palestinesi, testimoni di una speranza nonostante tutto non sopita nella loro Terra.
Marta, del team di Tutti a raccolta 2013, 24 ottobre 2013
(1) Antonio Brusa, L’atlante delle storie, Palumbo Editori, Terzo Millennio
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