SONO NATO A BETLEMME, PRENDETE NOTA

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19/09/2011

Intervista a Jamal Jadallah

by Andrea Masseroni

In vista della votazione Onu del 20 settembre (la presentazione della richiesta di riconoscimento palestinese alle Nazioni Unite è stata successivamente spostata, ed è attualmente fissata al 23 settembre (N.d.R.) ) sul riconoscimento dello Stato palestinese, incontriamo Jamal Jadallah, referente del Wafa, agenzia di stampa palestinese, presso l’“Associazione della Stampa Estera in Italia” a Roma in Via dell’umiltà: una via che si addice perfettamente all’essenza di Jamal, il quale ci racconta una Palestina ferita ma viva, disperata ma ancora determinata a costruire un futuro di pace, arrabbiata ma che non cede all’odio verso gli altri: una terra, un popolo che sopravvive, che lotta per veder riconosciuta la propria identità la quale, come scrisse il poeta Adonis nel 2002, “non è un dato definito una volta per tutte, ma un’opera che va sempre completata”.

Cominciamo con la Palestina: Lei dov’è nato?

Io sono nato a Betlemme, sono un parente di Gesù! Sono musulmano ma parente di Gesù il quale era ebreo ma comunque palestinese.

Che ricordi ha della Sua terra?

I ricordi della mia terra sono legati anche al dolore: è un dolore che colpisce al cuore perché la Palestina è una terra negata per i palestinesi. Non solo non vengono risparmiate le case e le costruzioni, anche gli alberi vengono sradicati dai coloni israeliani. La Palestina è una terra che soffre, considera che il popolo palestinese non ha mai fabbricato un’arma ed ha una storia molto più antica di quella raccontata dalla Bibbia. Noi abbiamo una grande civiltà: quella cananita. Abbiamo dato un grande contributo nel corso delle diverse epoche a tutta la zona del mondo arabo-islamico.

Ogni bandiera ha un significato. Cosa rappresenta quella palestinese?

La bandiera palestinese è una bandiera che rappresenta varie cose come la prosperità e la pace. È anche una bandiera a lutto, e che ricorda il sangue versato dai palestinesi per resistere alle ingiustizie e alle prepotenze che hanno dovuto subire.

Riguardo il 20 settembre: inizialmente le posizioni di Obama e Netanyahu sul riconoscimento dello Stato palestinese erano nettamente divergenti, poi invece sono diventate concordi. Qual è la Sua opinione in merito?

Il discorso iniziale di Obama era in linea con l’applicazione del Diritto Internazionale, poi se l’è rimangiato assecondando Netanyahu. Il discorso è che ci si dovrebbe riferire solo al Diritto Internazionale: i conflitti ci sono perché Israele non lo rispetta. Ora, noi palestinesi, ci rivolgiamo all’Onu per questo: vogliamo chiarire la nostra situazione sulla base del Diritto Internazionale. Anche Israele, poi, nasce così come noi intendiamo procedere per far riconoscere lo Stato palestinese.

Sulle posizioni assunte da Berlusconi invece cosa pensa?

Io mi trovo in accordo con l’espressione utilizzata dal Segretario del Pd Bersani: quella di Berlusconi è una diplomazia personale che non guarda al lungo termine. È un peccato che l’Italia, che occupa un punto strategico all’interno del Mediterraneo, si affianchi ad Israele quando questo è in torto. L’Italia ovviamente può essere dalla parte di Israele ma deve anche essere dalla parte della giustizia: deve riconoscere quando Israele sbaglia. Il parlamento italiano è una conquista del popolo italiano: un simbolo di democrazia. Un parlamentare italiano non può difendere un altro Stato se non in termini di diritto e giustizia. Le dichiarazioni di questi giorni di alcuni parlamentari contro il riconoscimento dello Stato palestinese sono basate su falsità ed insensatezze. Questo crea in noi, italiani di origine palestinese, un grande dolore in quanto questi stessi parlamentari non hanno mai invitato concretamente Israele a sedersi ad un tavolo per una vera e costruttiva trattativa di pace con la Palestina. Riteniamo che queste dichiarazioni danneggino l’Italia e la sua immagine in tutto il mondo arabo, il quale infatti ne ha criticato le posizioni.

L’alto rappresentante per la politica estera europea Catherine Ashton ha poi dichiarato che addirittura avrebbe dissuaso Abbas a portare avanti la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese…

L’Unione Europea si è mossa solo quando i palestinesi hanno chiesto il riconoscimento del loro Stato, mentre quando Israele ci attacca, ci uccide e ci bombarda questa, si limita a fare “dichiarazioni di preoccupazione”. È evidente che c’è uno squilibrio: le dichiarazioni di questi leader non hanno più peso politico, né credibilità, né rappresentano più il pensiero della società civile.

Fra i Paesi che voteranno contro il riconoscimento ci sono Italia, Germania, Paesi Bassi e Polonia, ovvero Paesi che hanno ospitato alcuni dei peggiori campi di concentramento. Lei crede che il senso di colpa europeo per la Shoah stia influenzando le decisioni dei diversi Paesi nei confronti della votazione?

Non credo. La Shoah deve essere un punto di riferimento per le azioni future. Nessuno deve più soffrire: non solo gli ebrei. Nessuno deve esser e più vittima di una Shoah: nemmeno i palestinesi.

Jean Améry nel 1998 scrive un articolo per MicroMega intitolato “L’antisionismo nuovo antisemitismo”. Crede che sia vero?

Anche io sono semita. Non comprendo cosa sia questo “antisemitismo”. Io penso agli ebrei come persone normali: come noi. Le critiche rivolte ad Israele non devono essere ricondotte ad un discorso di antisemitismo. Essere contro Israele non equivale ad essere contro gli ebrei.

A favore del riconoscimento dello Stato palestinese si sono svolte molte manifestazioni tra cui la marcia da Giaffa a Sheikh Jarrah portata avanti da israeliani e palestinesi della società civile. Cosa ne pensa?

Sono importantissime. E non dimentichiamoci delle manifestazioni avvenute a Gerusalemme a favore del riconoscimento dello Stato palestinese né degli intellettuali israeliani che hanno a cuore la nostra causa. C’è una destra europea che aiuta i coloni israeliani, con sentimenti di stampo nazista e che non credono nei diritti umani, ad instillare attraverso i giornali e l’istruzione questi sentimenti di odio nelle giovani generazioni. Israele, ad esempio, non ha mai rispettato gli accordi di Camp David: questo deve cambiare.

Come considera la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu?

Considero questa votazione come una svolta storica nella vita del popolo palestinese. Abbas ha ribadito che serve il dialogo per costruire la pace e non armi. Ed è questo che vogliamo: vivere in pace con Israele e il mondo arabo. Questo ci conduce all’Onu il 20 settembre. La considero poi come un punto  di inizio per un nuovo equilibrio mondiale: America ed Europa stanno perdendo influenza. Questo è un fatto di rilevante importanza. Nel tempo Israele sarà sempre meno fiancheggiato politicamente. Inoltre questa votazione servirà anche all’Europa per interrogarsi su quanto ha fatto per i diritti del popolo palestinese, per la sua protezione e il principio “due popoli, due Stati”.

Alcuni hanno scritto che la Palestina non è ancora matura per essere riconosciuta come Stato perché esistono delle divergenze troppo importanti tra Hamas e Fatah…

Gli affari interni palestinesi sono come quelli italiani. Anche noi abbiamo le nostre problematiche: voi la Lega Nord e noi Hamas. Dare possibilità ad Abbas di emanare leggi per tutta la Palestina vuol dire darci la possibilità di poter in futuro rinunciare anche ad Hamas e Fatah: ci saranno elezioni, voglia di vivere e conoscere il mondo senza le restrizioni dei “check points” israeliani.

Lei ha fiducia in Abbas?

Abbas ha creato una nuova strategia: ha dato la possibilità al popolo palestinese di vivere e conoscere la realtà attraverso processi sia politici che culturali. Questa è una strategia che serve a tutto il mondo arabo.

In passato ha avuto fiducia in Arafat?

Arafat è stato un grande personaggio. Ha dato vita allo stato israeliano più di quanto non abbiano fatto gli israeliani stessi. Con gli accordi di Oslo, Arafat ha di fatto riconosciuto Israele. Gli israeliani però hanno continuato con la loro politica di occupazione.

Alcuni hanno scritto che riconoscere lo Stato palestinese significa delegittimare Israele…

Israele non ha una Costituzione né confini, eppure è riconosciuto dall’Europa. Il voto all’Onu non è per delegittimare Israele ma per sradicare l’occupazione (che noi non vogliamo). Riconoscere la Palestina come Stato significa dare forma anche a Israele e sedersi al tavolo dei negoziati di pace in situazione di parità politica. La nostra unica forza è il Diritto Internazionale: noi non abbiamo carri armati. Israele ha sempre usato la politica dell’arroganza e questo gli è stato permesso: ma cosa ne hanno ottenuto gli israeliani? In situazioni di pace è tutto più facile, soprattutto la mobilità.

Lei ha sicuramente seguito gli sviluppi della stampa araba e israeliana riguardo la votazione del 20 settembre. Come hanno affrontato questo argomento secondo Lei?

C’è una trasformazione a livello di mass media nel mondo arabo, mentre gli israeliani subiscono ancora la censura dell’esercito. Ma esistono comunque gli Indignados di Tel Aviv e avvengono manifestazioni a favore della giustizia sociale. Questa trasformazione del mondo arabo ha dato una svolta, insieme alla Primavera Araba, ad un nuovo tipo di giornalismo, il quale sente il cuore della società civile e guarda ai suoi problemi: questo manca addirittura nei mass media europei, i quali ultimamente sfociano sempre più nel gossip.

Cosa significa essere palestinesi in Palestina?

È molto significativo: noi parliamo di persone che cercano di vivere in un territorio occupato da Israele, il quale applica ancora le leggi inglesi del mandato britannico. Questo, la Comunità Europea, lo sa. Essere palestinesi vuol dire dimostrare una costante e ferrea voglia di vivere e di sopravvivere.

Cosa significa invece esserlo in Italia?

È un punto di incontro tra una cultura e l’altra. Gli italiani sono un popolo grande, sensibile e curioso. L’Italia è un Paese ricco di storia. La presenza palestinese, peraltro, è molto attiva: non c’è una cifra ufficiale, ma credo che si possa parlare di circa seimila individui.

Spesso si pensa ai palestinesi come a dei terroristi e alla Palestina come covo del terrorismo (Gaza in particolar modo). Anche uno studio del 1986 del Prof. Angelo Arioli evidenziava come ciò fosse diffuso addirittura nei libri di testo scolastici italiani. Oltre all’ambito italiano, qual è il suo pensiero in merito?

La propaganda israeliana ha avuto grande eco in Occidente. Non solo nei libri di testo israeliani i palestinesi sono definiti vagamente come “arabi” o addirittura “terroristi”. Anche nei testi italiani questo avviene, è vero. In questo modo, la civiltà cananita è del tutto negata . Questo è un pregiudizio e un delitto culturale. Il terrorismo, poi, non è una pratica culturale tipicamente palestinese. Cos’è il terrorismo? L’Unione Europea ancora non l’ha definito. Che differenza c’è tra il “terrorismo palestinese” contro Israele e la “violenza israeliana” contro i palestinesi? Nel Corano è scritto che vivificare una vita significa vivificarle tutte: non fare ciò è terrorismo.

Cosa significa e quanto è importante per i palestinesi il diritto al ritorno?

È un diritto sacro-santo. Nessuno può essere cacciato dalla propria terra. I palestinesi sono nati lì. Più di quattrocentocinquanta villaggi sono stati cancellati con l’arrivo di Israele. Questo tipo di crimine deve essere riconosciuto e giudicato. Il diritto al ritorno per i palestinesi è importante per quelli che sono i principi fondamentali del Diritto Internazionale.

Il professor Edward Said, durante un’intervista del 2000 per il giornale israeliano Ha’aretz Magazine, alla domanda dell’intervistatore  “Ci odia?”, rispose “No. Strano, l’odio non è tra le emozioni che provo. La rabbia è molto più produttiva”. Lei cosa ne pensa?

È la rabbia. È chiedersi perché. Dal 1930 al 1970 i palestinesi hanno costruito il mondo arabo attraverso i propri insegnanti. Fino al 1948 tutti gli ebrei erano palestinesi: non c’erano israeliani. Una parte di questi ebrei palestinesi è stata unita ad altri ebrei di provenienza russa e polacca creando così uno Stato a parte. Tutto questo è accaduto attraverso la perpetrazione di massacri e ingiustizie, più di quanto non fosse accaduto con l’Apartheid in Sud Africa. Noi non conosciamo odio: abbiamo subito le crociate, l’occupazione turca, poi quella ottomana e quindi quella britannica ed ora quella israeliana: la nostra rabbia è lunga secoli. Noi sopportiamo tutto questo. Ritengo Gesù il miglior uomo uscito dalla Palestina: la Palestina va protetta per tutti, cristiani, ebrei e musulmani.

Golda Meir il 15 giugno 1969 al Sunday Times dichiara che i palestinesi non esistono…

Io ho vissuto quegli anni. Ricordo che nel 1967, avevo sette anni, mi sono svegliato con i carri armati inglesi guidati da israeliani e ci hanno cacciati. Ricordo i pianti e le sofferenze del mio popolo, delle donne che non sapevano dove fossero i propri figli e mariti. I soldati armati ci comandavano ed io ero piccolo. Ci maltrattavano. Golda Meir nel dire ciò dice una bugia: il suo è un inganno. Perciò noi resistiamo. In infanzia io ho vissuto anni di terrore: questo non è forse terrorismo? È il caso di dire che Golda Meir è passata, è andata, mentre i palestinesi sono rimasti e continuano ad esistere e resistere.

Come interagiscono fra loro i principi del riconoscimento dello Stato palestinese e quelli della Primavera Araba?

La Primavera araba nasce anche dalla rabbia che deriva dall’impotenza nei riguardi dell’ingiustizia nei confronti dei palestinesi. La Primavera Araba non è cominciata ora ma dura da tantissimo tempo: ora è sfogata. È poi anche una conseguenza dell’appoggio che l’Europa ha sempre dimostrato per i regimi dittatoriali nel Medio Oriente.

Molti affermano che la Palestina non è stata rubata ai palestinesi dagli israeliani ma che piuttosto è stata acquistata…

Gli israeliani non acquistano nulla in Palestina: gli ebrei palestinesi possono farlo. Non c’è stato un acquisto, perlomeno non nei termini in cui viene sempre presentato questo tipo di questione. Quel che è stato acquistato, è stato acquistato con l’inganno da società americane: e non si capisce con quale legittimità possano aver acquistato queste terre.

Circa nove secoli prima della rivelazione dell’Islam, in Cina l’imperatore Huangdi ordinò la costruzione della Grande Muraglia cinese per difendersi dalle incursioni dei popoli vicini, particolarmente dai mongoli, nel Medioevo praticamente quasi tutte le grandi città erano fortificate e negli anni sessanta del Novecento venne costruito il Muro di Berlino per questioni di sicurezza. Lei crede che un muro possa bastare per difendersi, per essere al sicuro?

No. I muri sono la cosa più stupida che sia stata costruita nella storia perché dividono popoli e culture. L’essere umano nasce per stare insieme ad altri uomini e costruire un futuro di pace e prosperità. I muri creano solo sofferenza: sia per chi ne sta da una parte che per chi ne sta dall’altra.

La Grande Muraglia, le fortificazioni delle città e il Muro di Berlino non si sono rivelati efficaci nel tempo. Crede che anche per il Muro di Israele sarà così?

Finora non è servito a  nulla. Gli israeliani non hanno costruito un muro per proteggersi ma per creare sofferenza al popolo palestinese perché questo è stato costruito con l’arroganza. Il territorio palestinese, con tutte le sue strutture, edifici, strade, alberi, coltivazioni etc. non è stato rispettato per costruire il muro. Sono state deviate strade, interrotti percorsi già tracciati da secoli, abbattute abitazioni, interi villaggi, sradicati alberi, spazzate via colture e distrutti edifici. Per tornare alla frase della Meir sul popolo palestinese, posso dire con orgoglio che noi abbiamo distrutto quella frase e che distruggeremo anche quel muro nello stesso modo in cui abbiamo fatto finora: esistendo. Questo è un principio, peraltro, in completa sintonia con quella che è la Primavera Araba.

Nel 1987 l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità la Grande Muraglia cinese. Premesso che il pregio architettonico della Muraglia nulla ha a che vedere con il Muro di Israele, Lei ritiene in termini di principio che un muro, che viene costruito per dividere, possa ritenersi un patrimonio per l’umanità?

Ovviamente il muro che ha costruito Israele è completamente diverso: rappresenta il colonialismo, una politica del razzismo e un’ingegneria che è contro la società civile (come furono contro l’umanità quegli ingegneri che costruirono per Hitler i forni per i campi di concentramento, non dimentichiamolo mai). L’Unesco protegge il patrimonio architettonico ma non dimentichiamoci mai di proteggere anche il patrimonio dei popoli e dei singoli individui.

Il rapporto “Building Palestine: achievements and challenges”, prodotto dall’ANP  nell’aprile scorso, dal quale risultano importanti miglioramenti da parte sua nei vari settori economicamente sostenuti dall’ AHLC  è stato un ulteriore ed importante segno della maturità economica e gestionale della Palestina…

Innanzitutto una premessa: i finanziamenti che la Palestina riceve dalla Comunità Europea e dagli Stati Uniti sono quelli che dovrebbe pagare Israele per l’occupazione dei territori palestinesi. Detto questo, dal 1965 noi abbiamo creato una rivoluzione sia culturale che per il diritto al ritorno nella nostra terra. Sono avvenute per questo grandi rivalutazioni del patrimonio culturale palestinese: Beirut è stato un polo culturale di particolare interesse. I palestinesi hanno esperienza, capacità politica e culturale per essere riconosciuti come il popolo di uno Stato di diritto.

Qual è il governo migliore per lo Stato palestinese, secondo Lei?

Premetto che considero la democrazia come uno strumento e non come un prodotto occidentale. Noi vorremmo utilizzare questo strumento contestualizzandolo alle nostre cultura e tradizione. Ci servirà per creare un nostro sistema di governo. Uno Stato di diritto palestinese a maggioranza musulmana potrà conferire magari al Corano una particolare importanza ma non per questo intenderemo rendere i cristiani o gli ebrei in Palestina una minoranza trattata diversamente dai musulmani. Ribadisco che prima di Israele la Palestina era di tutti. Noi sappiamo cos’è la coesistenza: in questo risiede la nostra esperienza.

Nell’Agosto 2008 viene a mancare il poeta ed intellettuale palestinese Mahmoud Darwish. Fra tutte le sue poesie io credo che “Carta d’identità” sia la più rappresentativa della situazione umana dei palestinesi. Vorrei chiederLe un ricordo di Darwish.

Io conoscevo Darwish: è stato un grande poeta arabo e la poesia “Carta d’identità” è struggente e profondamente “umana”. Considero Darwish un faro per la cultura araba, una persona sensibile. Io l’ho incontrato varie volte sia in Italia che fuori. Mi ricordo che in certi momenti gli piaceva starsene da solo a riflettere e vederlo in quei momenti significava comprendere quanto fosse profonda la sua sensibilità: questo mi ha molto colpito. Darwish comincia con le poesie d’amore ma presto si accorge che non poteva essere indifferente alle sofferenze sue e del suo stesso popolo. Ha dato un forte contributo al processo per l’unità culturale e politica del popolo palestinese. Ha insegnato l’amore: considero Darwish come un piccolo Corano tascabile.

Di solito a fine intervista mi piace chiedere un proverbio, un aneddoto o un detto tipico della terra di origine della persona che sto intervistando e non intendo proprio esonerarLa da questa domanda…

Mi fa piacere! “Prima di giudicare gli altri guardati nello specchio”. Questo proverbio è semplice ma ha un grande significato: gli esseri umani sono tutti uguali. Il mistero che li divide in realtà li unisce, li porta a conoscersi. Conoscere sé stessi è importante tanto quanto conoscere gli altri.

http://www.medarabnews.com/2011/09/19/sono-nato-a-betlemme-prendete-nota/

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