admin | June 25th, 2013 – 12:43 am
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È tutta una questione di numeri. E di un mito politico irrisolto. Il fenomeno di Mohammed Assaf, vincitore effettivo e morale di “Arab Idol”, non può in alcun modo essere paragonato ai nostri talent show, e tantomeno ai ragazzi che attraverso contenitori di quel genere vivono un successo spesso temporaneo ed effimero in Italia. C’è di mezzo molto di più: la fatica di essere nato a Gaza, l’essere simbolo di una questione (araba e mediorientale e internazionale) irrisolta, l’essere un ragazzo negli anni delle speranze (negate o meno) dei ragazzi arabi, l’appartenere a un popolo che chiede riscatto in primis ai propri governanti incapaci e poi anche al mondo.
Sono solo canzonette, è vero, ma poi mica tanto, in una regione – quella araba – in cui la pop culture è da anni il mezzo per dire tanto di altro.
Mohammed Assaf, ragazzo palestinese di Gaza, erede di una stirpe di profughi, abitante di un posto dimenticato dal mondo come la cittadina-campo profughi di Khan Younis, non è arrivato alla fama sabato sera. La sera in cui è stato incoronato il re della canzone araba.
Mohammed Assaf ha costruito il suo mito professionale negli scorsi mesi, i mesi estenuanti di “Arab Idol”. Sono stati mesi in cui, dal punto di vista dell’immagine trasmessa al pubblico televisivo, Assaf non ha mai perso il timone. Non si è mai mosso dalla sua persona, o se si vuole dal suo personaggio: un ragazzo di Gaza, semplice, che nella sua giovane vita ne ha già passate tante. Un embargo, i bombardamenti a corrente alternata, la frontiera egiziana puntellata di tunnel, e anche una guerra devastante per Gaza e la sua gente come l’Operazione Piombo Fuso della fine del 2008. Assaf era un bambino durante la seconda Intifada. Ha avuto di certo un’infanzia negata dal conflitto. Ha visto morire.
Cosa vuoi che sia un talent show? Lo si affronta così, con l’emozione giusta, ma senza drammatizzare. Da telespettatrice, è stato straniante vedere questo ragazzo che reggeva il palco, le luci, il successo, quasi senza colpo ferire. Magari solo – si fa per dire – con un cedimento da stress che qualche settimana fa lo ha costretto a passare un po’ di tempo in ospedale, tra una puntata e l’altra di Arab Idol, a Beirut…
Lo ha premiato solo la sua tenacia? Sì, anche. Ma bisogna spiegare in quale modo Mohammed Assaf è riuscito a conquistare il pubblico panarabo che ha speso soldi, dinari, lire egiziane, e tutte le monete della regione per inondare di sms la trasmissione e decretare – in questo modo – la vittoria di popolo ottenuta da un palestinese. I numeri, insomma, non erano dalla parte di Assaf. I palestinesi sono suppergiù nove milioni, tra la Palestina del 1967, quella mandataria, i profughi e le diaspora. Il potenziale pubblico panarabo è suppergiù sui 200 milioni di persone, bambini compresi. Gli egiziani, che avevano anche loro un candidato alla vittoria in finale, hanno una popolazione da 80 milioni di persone. E se si parla di carica simbolica, beh, in finale c’era anche una ragazza siriana, nel bel mezzo di una tragedia così dimenticata, dura, crudele come quella del l’antico Balad as-Shams.
E allora? Che vittoria è stata questo schiacciante, adamantino, quasi scontato successo di Mohammed Assaf?
Assaf ha vinto per la sua voce. È chiaro, chiarissimo a chi ascolta e ama la musica araba. Una voce naturale, simile – si dice – a quella dell’Usignolo, Al Andaleeb, il mai dimenticato Abdel Halim Hafez. Dopo tanta attesa, Assaf sembra proprio il potenziale erede di una stirpe di cantanti che sembrava ormai estinta. Voce bellissima, capace di affrontare le canzoni tradizionali, persino folkloristiche, dando loro una dignità che sembrava persa.
Assaf ha vinto per la sua presenza scenica, a prima vista timida, eppure ferma e decisa. Una fermezza che si è impastata anche con i suoi commenti sulla Palestina, nettamente politici. Il suo sostegno ai detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, la sua aderenza al concetto di resistenza, di muqawwama, tipica di tutte le generazioni giovani a Gaza, non si appaiavano allo stereotipo: ma come? Un ragazzo tenta il tutto per tutto per uscire da Gaza e andare a cantare, eppure rimane un ragazzo politicizzato? Ma come, non gli interessano solo le canzonette? Altro che canzonette: uno degli ultimi brani cantati da Mohammed Assaf è stato un cavallo di battaglia tradizionale, quasi scontato, per i palestinesi. La debka della kefyah, ‘ala al kuffyeh, che i bambini danzano nei saggi di fine anno, a scuola. Debka cantata in smoking, e senza kefyah, evocata in un gentile gesto della mano, che roteava come se l’avesse stretta in pugno.
Sono solo canzonette, è vero. Eppure Assaf è riuscito a rompere lo stereotipo del ragazzo (maschio) palestinese, buono solo a rappresentare il clichè del terrorista. E dare dignità, nell’immagine televisiva panaraba, a intere generazioni di ragazzi (maschi) palestinesi, rappresentati spesso solo con bandana, mitra, e tutti gli oggetti tipici dell’iconografia del martirio. Bene, si può pure cantare, conservando la dignità di un popolo. È per questo che Assaf ha conquistato i cuori e gli sms panarabi. Perché il mito palestinese è forse, ora, solo un mito politico. Ma la questione palestinese, quella va ben oltre il mito, è ancora conflitto, ancora vulnus irrisolto in Medio Oriente.
Nelle pieghe di un presente che ha relegato il conflitto israelo-palestinese alla periferia del Medio Oriente, Assaf ha mostrato che la questione resiste. A sorpresa, per molti osservatori. Ma non per tutti. La cronaca e la storia continuano, nella Khan Younis negletta e povera dove Assaf è cresciuto. A Gerusalemme. A Betlemme, Ramallah, Nablus, Hebron, nei paesi della Cisgiordania pressati dalle colonie israeliane. La cronaca e la storia continuano, invisibili ai più, eppure costanti. Mohammed Assaf lo ha fatto vedere in diretta tv, attraverso la sua vittoria e i caroselli di auto in tutta la Palestina.
Sono solo canzonette. È solo pop culture, bellezza, e non ci puoi fare nulla.
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