“Stato Palestinese”. O l’Isola che non c’è

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6 GENNAIO 2013 – 15:52

Slow news di Ugo Tramballi

D’ora in poi non chiamatela più “Autorità Palestinese” ma “Stato di Palestina”. Lo ha deciso per decreto il presidente Abu Mazen. Si inizino dunque i festeggiamenti. Anche se al momento la ex A.P. che non ha i soldi per pagare i salari dei suoi 140mila dipendenti, non ha probabilmente nemmeno quelli per stampare la carta con la nuova intestazione.

  Non so da quanti anni sogno di vedere con questi occhi una Palestina indipendente, accanto e in pace con uno Stato d’Israele garantito nella sua sicurezza. (Caspita, ormai scrivo e parlo nella lingua burocratica del processo di pace!). Eppure non riesco a eccitarmi. Il decreto di Mahmud Abbas, nom de guerre Abu Mazen, non soddisfa la mia attesa, non smuove aspirazioni civili forse ormai invecchiate per essere risvegliate dal torpore, non mi fa vedere il futuro con più ottimismo. Niente: diagramma dei sentimenti piatto.

   Eppure in questo inizio di anno c’era stata una seconda buona notizia. Per la prima volta da molto tempo Fatah aveva potuto organizzare una manifestazione a Gaza per festeggiare il suo quarantottesimo anniversario dalla fondazione. Hamas che controlla la striscia, ne aveva concesso lo svolgimento, come Fatah aveva permesso qualche manifestazione in Cisgiordania al movimento islamico. Forse è un segno concreto della riconciliazione politica fra i due principali partiti della liberazione palestinese: i soldi spesi per questo dall’emiro del Qatar, incominciano a dare i loro frutti.

   La riconciliazione è un passaggio necessario per l’indipendenza nazionale. Soprattutto per i palestinesi che hanno passato più tempo e versato più sangue a combattersi fra loro che a lottare contro chi impediva la creazione di uno Stato. Eppure nemmeno questa notizia mi ha spinto all’ottimismo.

  Forse troppi anni di delusioni creano una gabbia così solida di pessimismo da non permette di leggere il futuro con il dovuto distacco. Ma io in questo futuro vedo solo una ulteriore radicalizzazione.

  Il 22 gennaio Israele voterà con qualche mese di anticipo sulla scadenza naturale della Knesset, e il primo ministro Bibi Netanyahu sarà riconfermato. Se è possibile, il Paese andrà ancora più a destra poiché le fazioni etno-religiose forse guadagneranno qualche seggio in più, rubandolo al centro-destra di Bibi. Comunque andrà, si rafforzerà quell’Israele che sostiene l’impossibilità di discutere di pace con un movimento palestinese diviso e che al tempo stesso si rifiuta di farlo con uno riunificato, essendoci dentro Hamas. Comunque si presentino, per quell’Israele tribale i palestinesi non esistono.

 Anche nel campo palestinese vedo una radicalizzazione. Se Hamas che sostiene la lotta militare a oltranza, e Fatah a favore della trattativa con Israele, si riconcilieranno, questo avverrà in direzione delle posizioni del movimento islamico. Francamente, la linea della moderazione di Ab Mazen e del suo primo ministro Salam Fayyad, non hanno pagato quanto il militarismo di Hamas.

  Riconciliazione significa anche fine del governo Fayyad: la sua caduta è sempre stata la prima delle condizioni di Hamas. Anche dei vecchi arnesi di Fatah che con la politica moralizzatrice di Fayyad avevano smesso di arricchirsi. Come del nuovo sistema di potere arabo della regione: sarà casuale, ma il Qatar che aveva 400 milioni di dollari pronti da distribuire a Gaza, non ha trovato un quarto di quella cifra per pagare gli stipendi dei 140mila dipendenti pubblici in Cisgiordania, facendo così uscire da una pericolosa crisi fiscale l’Autorità palestinese. Pardon, lo Stato di Palestina.

  “Con Fayyad l’Autorità ha eliminato una corruzione strutturale nei ministeri e nelle agenzie governative”, scrivono Ziad Asali e Ghaith al-Omari, i leader dell’America Task Force on Palestine di Washington. “Le forze di sicurezza palestinesi hanno garantito ai palestinesi e agli israeliani una sicurezza senza precedenti. Nel 2011 l’Onu, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario hanno certificato che l’Autorità palestinese aveva interamente raggiunto tutti quei criteri internazionali per l’indipendenza”. La Task Force è la lobby palestinese a Washington: non è facile esserlo accanto a quella ebraica, l’Aipac, più ricca e potente.

  Se questo sarà il trend, se Abu Mazen si avvicinerà ad Hamas sacrificando Fayyad, riportanto Fatah alle sue vecchie ambiguità dei tempi di Arafat, sarà un successo per Israele (l’Israele di Bibi ma è quello maggioritario, fino a prova elettorale contraria) e una sconfitta per gli Stati Uniti. Cacciando Fayyad, un premier voluto dall’America e dall’Europa, Abu Mazen prende atto della nuova realtà: da un lato ci sono le fratellanze islamiche che governano, soprattutto in Egitto, e che promettono più attenzione alla causa palestinese di quanto non facessero i dittatori precedenti; dall’altro gli Stati Uniti che votano contro, in solitudine, alle Nazioni Unite; che si disimpegnano dal Medio Oriente salvo quando si tratta di sostenere le ragioni israeliane.

  Per questo sono pessimista. Ma certamente mi sbaglio. Alle elezioni in Israele vincerà il centro-sinistra o forse rivincerà Netanyahu che tuttavia deciderà di riprendere costruttivamente il diaologo con i palestinesi. Spinto dall’emiro del Qatar, intanto, Hamas diventerà il partito della pace. L’accordo storico sarà firmato da Khaled Meshal e Avigdor Lieberman. E io sarò di nuovo libero di credere nell’esistenza di Babbo Natale.

 

http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2013/01/stato-palestinese-o-lisola-che-non-c%C3%A8.html

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