REDAZIONE 12 GENNAIO 2014
di Ilan Pappè e Frank Barat – 11 gennaio 2014
Ilan Pappè, autore di The Ethnic Cleansing of Palestine [La pulizia etnica della Palestina] e di altri libri sull’occupazione coloniale israeliana della Palestina, ha contribuito a educare una generazione di attivisti e studiosi sulla falsificazione storica al centro di alcuni dei miti più ardentemente difesi del sionismo. Ha parlato con Frank Barat, un attivista di lungo corso e coordinatore del Tribunale Russell sulla Palestina, in un’intervista per il programma radio Le Mur a Des Oreilles (ascoltare l’intero audio qui). Qui ristampiamo una trascrizione rivista della loro discussione.
Come parte del gruppo israeliano dei “nuovi storici” tu se stato pioniere di una narrazione della storia che contraddice molti miti sionisti a proposito della creazione di Israele; hai assunto alcune posizioni radicali contro lo stato d’Israele. Quando e perché hai deciso di schierarti dalla parte dei palestinesi? E quali sono le conseguenze per te, da israeliano?
Cambiare opinione su un tema così cruciale è un lungo viaggio. Non succede in un giorno e non succede a causa di un singolo evento. Ho cercato di descrivere questo viaggio dal sionismo a una posizione critica contro il sionismo nel mio libro Out of the Frame [Non allineato].
Se dovessi scegliere un evento formativo che ha davvero cambiato il mio punto di vista in modo formidabile, sarebbe l’attacco israeliano contro il Libano nel 1982. Per quelli di noi cresciuti in Israele fu la prima guerra priva di consenso, la prima guerra che era chiaramente una guerra voluta: Israele non era aggredito, Israele aggrediva.
Poi si scatenò la prima Intifada. Quegli eventi aprirono in molti modi gli occhi a persone che me, che nutrivano dubbi sulla versione storica del sionismo che avevamo appreso a scuola. E’ un lungo viaggio e una volta che lo si intraprende ci si confronta con la propria società, ci si confronta persino con la propria famiglia e non una bella posizione in cui trovarsi. Quelli che conoscono Israele sanno che è una società intima e vivace, cosicché se le si è contro, lo si avverte in ogni aspetto della propria vita.
Penso sia questo uno dei motivi per cui ci vuole un po’ di più per persone come me per arrivare a questo punto di non ritorno: perché devi condividere queste idee quali che siano le ripercussioni.
La maggior parte degli stati nazione del mondo è costituita da ottimi propagandisti, ma Israele ha portato la propaganda a un altro livello. Nuri Peled-Elhanan ha scritto un libro su come gli arabi sono descritti nei libri di scuola israeliani per documentare la quantità di lavaggio del cervello e di propaganda con cui Israele alleva i suoi giovani da un’età molto tenera. Puoi dirci di più a proposito della tua esperienza al riguardo?
E’ una società fortemente indottrinata, probabilmente più della maggior parte delle società occidentali e più delle società non occidentali, perché è una specie di auto-indottrinamento. Non è per coercizione che le persone sono indottrinate; è un indottrinamento potente dal momento in cui si nasce a quello in cui si muore. Non ci si aspetta che se ne venga mai fuori, perché sembra che tutti nuotino in questo liquido.
Ma io penso ci sia una differenza tra la mia generazione e la generazione attuale dei figli di Nurit e dei figli miei; loro sanno più di quanto sapevamo noi, grazie a Internet e a ciò che accade. Penso sia più difficile per gli israeliani oggi affidarsi soltanto all’indottrinamento, anche se stanno facendo un buon lavoro. Sono pochi i giovani di Israele che contestano il sionismo.
Tuttavia io penso, o almeno spero, che il mondo sia oggi diventato troppo aperto. Ciò che è accaduto nel mondo arabo in anni recenti lo dimostra. Si pensava che queste fossero società chiuse che non sapevano cosa stava succedendo, così io penso che questo cambierà. Ma per noi … noi eravamo in una bolla; non sapevamo che c’era un’esistenza diversa, ed è stato molto difficile uscirne.
Penso sia difficile per la generazione più anziana accettare che le idee che hanno mantenuto per trenta o quarant’anni siano così fuorviate. Poiché questo è un viaggio così personale ed emotivo, è molto difficile arrivare a capire che avevano condotto la loro vita sotto l’influenza di miti sionisti.
Sì. Penso che dovremmo anche segnalare che come in ogni situazione colonialista dove si ha una lotta anticolonialista, c’è un sacco di violenza nell’aria. Quando sei allevato in un certo modo e le politiche e le azioni del tuo stesso governo spingono l’altro schieramento a ricorrere anch’esso ad azioni violente, allora pensi che oggettivamente il tuo punto di vista è corretto, perché vedi che ci sono attentatori suicidi, violenza, missili lanciati da Gaza.
Dobbiamo anche capire che questo è stato discusso ed esaminato nel contesto di una violenza permanente. E’ molto difficile per gli israeliani separare l’esperienza della violenza dalle ragioni di tale violenza. Una delle cose più difficili è spiegare agli israeliani qual è la causa e qual è l’effetto; in altre parole a non considerare questa violenza come se semplicemente spuntasse dal nulla.
Questo deriva anche dal fatto che i media e il sistema d’istruzione prevalenti, specialmente in Israele, non fanno il loro lavoro. La gente dice: “Cosa volete che faccia Israele? Hamas ha lanciato 150 razzi al giorno su Sderot. Devono reagire.” Ma poiché il nostro mondo ha un senso così scarso della storia – una memoria che a malapena copre a malapena una settimana, per non parlare di sei mei – il cerchio della violenza è difficile da spezzare, perché l’istruzione non fa la sua parte.
E’ vero, e io penso che una delle sfide maggiori consista nel trovare uno spazio perché gli israeliani e gli occidentali siano in grado di capire come tutto è cominciato. Quando i primi sionisti arrivarono e si resero conto che quella che pensavano fosse una terra deserta, o quanto meno la loro terra, era in realtà abitata da arabi, loro considerarono questa gente come estranei, come estranei violenti che si erano impossessati della loro terra.
E’ questa struttura di assiomi che i sionisti hanno costruito riguardo all’altra parte che alimenta la percezione e le visioni di tutti gli israeliani. E’ una de-umanizzazione dei palestinesi che è iniziata alla fine del diciannovesimo secolo. Come spiegare alle persone che loro in realtà sono un prodotto di questa emarginazione? E’ uno dei compiti più grossi per chiunque si impegni nell’istruzione alternativa o cerchi di trasmettere un messaggio diverso alla società israeliana.
In effetti tu hai dedicato la tua opera di storico a questo progetto. Alcuni dicono che questo conflitto è iniziato nel 1948, mentre altri indicano il 1967. Ma storicamente la prima Intifada palestinese ha avuto luogo alla fine degli anni ’30 e fu una rivolta prevalentemente contro l’imperialismo britannico così come contro la grande immigrazione sionista.
Io penso sia importante risalire ancora più indietro del 1936 per capire questo. Occorre risalire alla fine del diciannovesimo secolo quando il sionismo apparve come movimento. Aveva due obiettivi nobili: uno consisteva nel trovare un luogo sicuro per gli ebrei che si sentivano minacciati dalla marea crescente dell’antisemitismo e l’altro era che alcuni ebrei volevano ridefinirsi come gruppo nazionale e non soltanto religioso.
I problemi iniziarono quando scelsero la Palestina come territorio in cui dare seguito a questi due impulsi. Fu chiaro che, visto che la terra era abitata, il progetto doveva essere realizzato con la forza e così fu inevitabile prendere in considerazione lo spopolamento degli indigeni palestinesi.
Ci volle del tempo perché la comunità palestinese si rendesse conto che il piano era questo. Persino la dichiarazione Balfour del 1917 non risvegliò il popolo; non indusse i palestinesi a ribellarsi alla politica britannica o alla strategia sionista. Ma arrivati al 1936 si poteva già costatare il risultato concreto di questa strategia. I palestinesi erano cacciati dalla terra comprata dal movimento sionista e i palestinesi perdevano il lavoro a causa della strategia sionista di impossessarsi del mercato del lavoro.
Era chiarissimo che il problema ebraico europeo sarebbe stato “risolto” in Palestina. Tutti e tre questi fattori spinsero per la prima volta i palestinesi a dire: “Faremo qualcosa al riguardo”. E cercarono di ribellarsi. Ci volle tutta la potenza dell’Impero Britannico per sedare la rivolta. Ci vollero tre anni. I britannici utilizzarono tutto un orribile repertorio di tattiche malvage quanto quelle usate in seguito dagli israeliani per domare l’Intifada palestinese del 1987 e del 2000.
La rivolta palestinese del 1936 fu una rivolta molto popolare. I “falah”, i contadini, presero le armi. Come ho appreso leggendo i tuoi libri, la repressione violenta di questa rivolta aiutò la milizia sionista Haganah nel 1947-48, perché la dirigenza palestinese era stata uccisa o costretta all’esilio, dopo il 1936, lasciando la parte palestinese molto indebolita.
Assolutamente. L’élite politica palestinese viveva nelle città della Palestina, ma le principali vittime del sionismo fino agli anni ’30 furono in campagna. E’ per questo che la rivolta iniziò là; ma ci furono segmenti dell’élite urbana che si unirono a loro. Come hai detto, ho segnalato in uno dei miei libri che i britannici uccisero o incarcerarono la maggior parte di coloro che appartenevano all’élite politica palestinese, in particolare all’élite militare (o potenzialmente militare).
Crearono una società palestinese che era molto indifesa nel 1947, quando iniziarono le prime azioni sioniste con la consapevolezza che il mandato britannico era arrivato alla fine. Penso che ebbe un impatto sull’incapacità dei palestinesi di resistere un anno dopo, durante la pulizia etnica della Palestina nel 1948.
Il tuo lavoro di storico ha demolito molti dei miti fondanti di Israele. Uno dei miti è che Israele è stato creato perché la Bibbia lo aveva dato al popolo ebreo. Potresti parlarci di Theodor Herzl, uno dei fondatori del sionismo, che non era per nulla religioso e neppure parlava l’yiddish?
Uno dei fini del sionismo, solitamente dimenticato dagli storici, era un desiderio di secolarizzare la vita ebraica. Ma se si secolarizza la religione ebraica non si può usare la Bibbia come giustificazione per l’occupazione della Palestina. Era una mistura bizzarra, un movimento composto di persone che non credevano in Dio ma ciò nonostante credevano che Dio avesse promesso loro la Palestina. Penso sia qualcosa che è al centro dei problemi interni della società israeliana di oggi.
E’ anche importante capire che persino prima di Herzl ci furono persone che si consideravano sioniste ma erano consapevoli dell’esistenza dei palestinesi in Palestina. Essi prendevano in considerazione un tipo diverso di collegamento con la Palestina per risolvere le minacce alla vita ebraica in Europa. Ad esempio Ahad Ha’am (vero nome: Asher Ginzburg) affermava che forse la Palestina sarebbe stata solo un centro spirituale e che gli ebrei, se erano insicuri in Europa, dovevano insediarsi fuori dall’Europa o in società europee più stabili.
Un gruppo importante di persone che non consentì loro di farlo furono i sionisti cristiani, che esistevano già persino allora, perché credevano che il ritorno degli ebrei in Palestina fosse parte di un piano divino. Volevano che gli ebrei tornassero in Palestina perché pensavano che ciò avrebbe accelerato il secondo avvento del Messia. Erano anche antisemiti, perciò vedevano in questo un doppio vantaggio: potevano contemporaneamente liberarsi degli ebrei in Europa.
Penso sia un periodo importante cui risalire al fine di comprendere come l’influenza reciproca di imperialismo britannico, sionismo cristiano e naturalmente di nazionalismo ebraico divenne una forza formidabile che lasciò pochissime scelte ai palestinesi.
La storia è cruciale. Puoi dirci di più su come la storia e la conoscenza, se correttamente insegnate, possono illuminare e forse creare altra lotta?
Se non si ha una prospettiva storica, se non si conoscono i fatti, si accettano le descrizioni negative che il mondo e gli israeliani hanno dei palestinesi. Ti fornirò un solo esempio. Dalla prospettiva israeliana il “terrorismo palestinese” sembra originato dal nulla. Non sappiamo perché queste persone sono violente; forse è perché sono mussulmani, forse è la loro cultura politica.
E’ solo quando si ha una conoscenza storica che si può dire: “Aspetta un attimo. Capisco da dove viene questa violenza perché conosco la fonte della violenza. In realtà insediarsi a casa mia con la forza è un atto di violenza. Forse ho sbagliato, forse ho fatto bene a cercare di oppormi con la violenza, ma tutto comincia con l’invasione del luogo stesso in cui vivo. Questa invasione è accompagnata da un desiderio di liberarsi di me … cos’altro posso fare?”
Penso che la dimensione storica sia innanzitutto importante per una comprensione migliore del perché il conflitto continua. In secondo luogo, non riusciremo ma a cambiare le visioni politiche riguardo al problema palestinese se non spiegheremo alle persone come sia stata manipolata la conoscenza. E’ molto importante, perché bisogna capire come certe espressioni, come “processo di pace”, sono utilizzate e come certe idee sono trasmesse, come “Israele è la sola democrazia del Medio Oriente” e l’idea del primitivismo palestinese.
Occorre capire come un linguaggio simile sia un mezzo di manipolazione della conoscenza a sostegno di un certo punto di vista e per evitare che un altro punto di vista risulti coerente. Penso che la storia assolva una doppia funzione: capire la storia di un luogo ma anche capire il potere delle narrazioni, come sono costruite, come sono manipolate e come possono essere sfidate.
La narrazione principale che gli israeliani hanno ancora successo nel presentare è questa idea di una terra senza popolo per un popolo senza una terra; e anche se la terra non era vuota, era piena di gente che non aveva veri collegamenti con il luogo e perciò manca di legittimità. Perde la legittimità perché non sta lì, perde la legittimità perché è costituita da beduini e nomadi, perciò non si cura del luogo come “noi” e infine perde poi legittimità perché è violenta o è mussulmana dopo l’11 settembre.
C’è un costante fuoco di sbarramento di parole e idee per cercare di persuadere la gente che qualsiasi cosa gli israeliani stiano facendo, anche se lo si disapprova, non conta, perché non c’è nessuno dall’altra parte che abbia qualcosa di legittimo da offrire. Così tutto il progresso dipende dalla “bontà” di Israele.
Se si esamina attentamente il linguaggio a proposito della “pace” dopo Oslo, esso è tutto incentrato su “concessioni” israeliane: gli israeliani faranno concessioni ai palestinesi e allora c’è una possibilità di pace. Ma se questo è il punto di partenza non ci sarà mai alcuna riconciliazione. Se io ho invaso casa tua, ma sono abbastanza “generoso” da permetterti di portar via il sofà in un altro posto, questo è un genere di dialogo che mira gravemente a scatenare un conflitto. E quasi più umiliante che lo stesso atto d’invasione.
La storia è soggettiva? Ad esempio come potete tu e lo storico Benny Morris concordare sui fatti avvenuti nel 1947-48, ma arrivare a conclusioni tanto diverse? Come fai i conti con questo?
Innanzitutto io penso ci sia una struttura fattuale. Al riguardo Benny Morris si è gettato nella mischia per dire che l’idea che i palestinesi se ne siano andati volontariamente nel 1948 è un’assurdità. Questo è un dibattito sui fatti: se ne sono andati volontariamente o sono stati espulsi?
Ma mentre questo dibattito prosegue è oggi chiaro che non è questo il problema più importante, perché prima che in Israele comparissero i Nuovi Storici, sapevamo che i Palestinesi erano stati espulsi ma semplicemente non credevamo loro. C’erano cinque milioni di profughi palestinesi che continuavano a dirci “Siamo stati espulsi” e noi dicevamo “No, voi siete palestinesi e perciò quando dite questo noi non vi crediamo”.
E’ stato solo quando gli storici israeliani hanno detto “Sapete una cosa? Hanno ragione” e che c’erano documenti a conferma di quello che i palestinesi dicevano che improvvisamente loro stavano “dicendo la verità”. Ma è stato solo un primo passo; la cosa più importante è stata non ciò che era successo ma che cosa imparare da ciò che era successo.
Questo è un dibattito morale e ideologico. Il tentativo artificiale di dire che gli storici si occupano soltanto di che cosa è successo senza dir nulla su quali siano le implicazioni è falso e lo si può costatare nello stesso lavoro di Morris. Egli scrive nel suo primo libro che è un po’ dispiaciuto per quello che è stato fatto nel 1948, mentre nel suo ultimo libro dice di essere dispiaciuto perché gli israeliani non hanno completato la pulizia etnica.
Non ha cambiato nemmeno un fatto in nessuno dei libri; sono gli stessi fatti, ma i libri sono scritti in modo molto diverso. Un libro non ama l’idea della pulizia etnica, ma l’altro libro la sottoscrive, non solo giustificandola nel passato ma avallandola come piano per il futuro.
Tu ti sei trasferito a Exeter, nel Regno Unito, nel 2007, ma torni ancora spesso in Israele. Come si è evoluta la situazione del paese negli ultimi anni?
Il compito di cambiare la società ebraica dall’interno è formidabile. Questa società sembra essere sempre più trincerata nelle sue posizioni. Quanto più ci penso, tanto più dispero che si riesca a cambiarla dall’interno. C’è un numero crescente di giovani che sembrano afferrare la realtà in modo diverso e anche se sono pochi non ricordo nemmeno un piccolo numero di generazioni precedenti che avesse posto domande simili prima.
Così, anche se non coltivo alcun ottimismo riguardo a un cambiamento dall’interno nel futuro a breve termine, ci sono segni che con una pressione dall’esterno c’è un gruppo di persone in Israele con le quali si può essere potenzialmente in grado di creare una società diversa. Se si confronta Israele oggi con l’Israele che ho lasciato e nel quale sono cresciuto, la tendenza è a una società più sciovinista, etnocentrica e intransigente, il che ci fa sentire che la pace e la riconciliazione sono molto lontane, se ci affidiamo unicamente alla speranza che la società ebraica cambi dall’interno.
Dovremmo allora dedicare tutta la nostra energia ad applicare una pressione dall’esterno o dovremmo continuare a tentare di persuadere gli israeliani a cambiare le loro idee?
Il motivo per cui stiamo discutendo di questo è perché sul terreno la macchina della distruzione non si ferma nemmeno un giorno. Perciò non abbiamo il lusso di aspettare più a lungo. Il tempo non è dalla nostra parte. Sappiamo che mentre aspettiamo, stanno succedendo cose terribili. Sappiamo anche che esiste una correlazione tra quelle cose terribili che stanno accadendo e il riconoscimento da parte degli israeliani che c’è un prezzo da pagare per quello che stanno facendo. Se non pagano un prezzo per quello che stanno facendo, addirittura accelereranno la strategia della pulizia etnica.
C’è perciò una mistura. Abbiamo urgente necessità di trovare un sistema mediante il quale fermare ciò che viene fatto sul terreno e anche prevenire ciò che sta per succedere. Ci vuole una potente strategia di pressione dall’esterno. Nella misura in cui all’esterno si è interessati, penso che la società civile internazionale e il movimento del BDS [boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni – n.d.t.] siano il meglio che abbiamo a disposizione.
Tuttavia non può essere il modello o fattore unico. Ci sono due fattori aggiuntivi necessari per riuscire. Uno è dalla parte palestinese. Deve essere sistemata la questione della rappresentanza. Ci vuole una buona soluzione. In secondo luogo occorre avere un tipo di sistema di istruzione, all’interno di Israele, che si prenda il tempo di istruire gli ebrei israeliani su una realtà diversa e sui benefici che può apportare. Se tali fattori operano tutti bene insieme e abbiamo un approccio più olistico alla questione della riconciliazione, le cose potrebbero cambiare.
Da docente insegnando in Israele avresti un impatto maggiore che insegnando all’estero? Potresti essere in Israele l’insegnante che sei nel Regno Unito?
Non penso di voler comunque essere un docente universitario. Le università non sono il luogo migliore per insegnare alle persone sulla realtà della vita o per cambiare il loro punto di vista. L’università è oggi un luogo per le carriere, non per la conoscenza e l’istruzione. Insegno anche in Israele, a modo mio, mediante i miei articoli, attraverso la minuscola quantità di discorsi pubblici che mi è permesso di tenere. Vorrei continuare così.
Mi pare che quello che sto facendo in Gran Bretagna sia lavorare meno all’istruzione e più alla pressione dall’esterno. Non si può sostenere una campagna BDS senza spiegare alla gente perché è necessaria, senza darle gli strumenti e i precedenti di cui ha bisogno per comprenderla. Per legittimarla. Per tutto il tempo non smettiamo di essere sia educatori sia attivisti. E’ importante cercare di trovare il tempo per le azioni che si intraprendono e anche per il processo educativo. Non possiamo essere troppo impazienti se le persone non capiscono immediatamente. Dobbiamo essere pazienti e spiegare le nostre posizioni ripetendoci in continuazione fino a quando la gente non le capisce.
Sono molto interessato alla questione della solidarietà. Da non palestinese, che cosa significa solidarietà? Con chi siamo solidali? Che fare quando chiunque rappresenti i palestinesi vuole uno stato sull’11 per cento della Palestina storica che sia uno stato neoliberale, capitalista? Come si presume che io mi debba schierare in solidarietà con questo?
Innanzitutto la solidarietà è con le vittime di una certa politica e/o ideologia, anche se tali vittime non sono “rappresentate”. Sei solidale con la loro sofferenza e appoggi il loro tentativo di uscire da tale sofferenza.
Tu poni anche una domanda interessante. Penso che parte della solidarietà sia come una buona amicizia. Da buon amico tu puoi dire al tuo amico che capisci quello che sta facendo ma che pensi stia sbagliando. Quando si tratta delle nostre discussioni con buoni amici che continuano ad appoggiare il processo di pace e la soluzione a due stati, quelli di noi solidali con il popolo palestinese si trovano in disaccordo. Parte del nostro ruolo consiste nel dir loro che pensiamo si sbaglino.
Ma il presupposto della tua domanda non è realistico. Nessun palestinese lo accetterà mai. Tuttavia se ciò accadesse, sì, forse dovremmo ripensare l’intera idea della solidarietà. Questi dibattiti sono organici e scaturiscono dalla situazione; non li stiamo inventando. Se hai una posizione sulla soluzione a uno stato o a due stati o su quale tipo di mezzi i palestinesi dovrebbero adottare, ti colleghi a problemi che hanno gli stessi palestinesi e perciò non sei un estraneo. Tradiresti la tua solidarietà se smettessi di avere una posizione su dibattiti attuali e importanti.
So che a volte c’è una posizione nazionalista che afferma che poiché non sei palestinese, non puoi commentare e non hai titolo ad avere un’opinione. Per me i movimenti sono fatti di persone e le persone sono diverse le une dalle altre. Non tutti giocano in base alle stesse regole. Penso che la solidarietà consista anche nell’essere d’accordo su che cosa è giusto e che cosa è sbagliato fare.
Quali sono i confini del coinvolgimento di chi è all’esterno? Non esiste alcuna risposta dogmatica a questo. Solitamente quando qualcuno dice qualcosa del tipo ‘tu non puoi essere a favore di uno stato se non sei palestinese o israeliano’ è normalmente per soffocare un dibattito. Non dovremmo sprecare troppo tempo su questa questione. Oggi penso che chiunque sia coinvolto sappia che cosa significa la solidarietà e che cosa ti autorizzi a fare.
Parliamo delle “soluzioni”. La soluzione a due stati, per quanto riguarda le istituzioni e i governi internazionali, pare essere tuttora la sola soluzione sul tavolo. Quando si parla di un solo stato con diritti uguali per gli israeliani ebrei e gli arabi palestinesi, la gente lo definisce un’utopia o dice che si è contro “l’autodeterminazione ebraica”. Anche i cosiddetti leader politici palestinesi, nonostante quello che succede sul terreno, continuano ad appoggiare la soluzione a due stati.
Penso stiano succedendo due cose. Una è il problema della rappresentanza palestinese. Chi nella West Bank afferma di rappresentare i palestinesi è diventato il rappresentante dell’intero popolo palestinese. Per quanto riguarda la West Bank si può capire perché la soluzione a due stati è attraente. Potrebbe significare la fine del controllo militare sulla vita di quella gente. Lo si può capire.
Ma questo trascura gli altri palestinesi, i profughi, la gente di Gaza e i palestinesi che vivono all’interno di Israele. Questa è una delle difficoltà. Ci sono certi gruppi di palestinesi che – secondo me a torto – credono che questo sia il modo più rapido per por fine all’occupazione. Io non lo penso. Hai ragione quando dici che gli accordi di Oslo hanno assicurato la prosecuzione dell’occupazione, non la sua fine.
Il secondo motivo è che la soluzione a due stati ha una sua logica attraente. E’ un’idea molto occidentale. E’ un’invenzione colonialista che è stata ripetutamente applicata in India e in Africa, l’idea della partizione. E’ diventata una specie di religione al punto che non è più messa in discussione; si studia semplicemente come arrivarci meglio. E’ sorprendente. Per me fa sì che persone molto intelligenti trasformino questo in una specie di religione della logica. Se ne metti in discussione la razionalità sei criticato.
Questo accade mentre molti in occidente aderiscono a essa. Nulla sul terreno potrebbe mai far loro cambiare idea. Così, naturalmente, hai ragione: cinque minuti sul campo dimostrano che lo stato unico c’è già. E uno stato non democratico, un regime di apartheid. Dunque c’è semplicemente bisogno di riflettere su come cambiare questo regime. Non c’è bisogno di riflettere sulla soluzione a due stati. Occorre pensare a come cambiare le relazioni tra le comunità, come influenza la struttura di potere in essere.
Allora perché persone intelligenti e razionali continuano a dire che la soluzione a due stati è il passo obbligatorio in direzione di qualcosa di meglio?
E’ da ricondurre a un modo razionalista, occidentale di guardare alla realtà. Afferma che si può sostenere solo ciò che si può ottenere, non ciò che si vuole. Al presente sembra ci sia una vasta coalizione a favore della soluzione a due stati, perciò va accettata. Non se ne valuta la moralità, la dimensione etica, anche potenzialmente potrà cambiare la realtà in seguito. C’è una barzelletta ebrea su una persona che perde la chiave e la cerca solo dove c’è luce, non dove è stata persa. La soluzione a due stati è la luce, non la chiave. C’è luce, perciò avanti!
Ha a che fare con la cultura e con l’idea che questo è un approccio molto “ragionevole”. Naturalmente è ragionevole sino a un certo punto, ma è totalmente insensato perché non ha nulla a che fare con il conflitto. Ha a che fare con il modo con cui Israele vuole che il mondo accetti l’idea che Israele ha bisogno della maggior parte del territorio che ha occupato nel 1967, ma che è disponibile a concedere una certa autonomia ai palestinesi di quel territorio. Questo è il dibattito in Israele. Non è mai a proposito dei principi.
Ciò di cui Israele ha sempre avuto bisogno è il sostegno internazionale. Ha bisogno che le sue politiche siano vidimate dalla comunità internazionale. Ha anche bisogno di un rappresentante o “partner” palestinese. Nel 1993 l’OLP lo ha sorpreso concordando di accettare una piccola area autonoma in una piccola parte della West Bank e di lasciare tutto il resto a Israele. Quella è la soluzione a due stati che tutti vogliono convincerci sia la sola via in avanti. Il problema è che nessun palestinese può convivere con questo; di cui la prosecuzione del conflitto.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte:http://www.zcommunications.org/history-and-myth-in-palestine-by-ilan-pappe.html
Originale: Socialistworker.org
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.
Storia e mito in Palestina
http://znetitaly.altervista.org/art/13829
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