DI PAOLA RIZET*
La Palestina è stata l’ospite speciale del salone Internazionale del libro di Torino che quest’anno si è tenuto dal 12 al 16 maggio.
Alla rosa degli scrittori palestinesi invitati per l’edizione del 2011, il pubblico ha riservato a Susan Aboulhawa un’accoglienza speciale. La giovane esordiente di origine palestinese è autrice del romanzo Ogni mattina a Jenin, da poco uscito in Italia per i tipi della Feltrinelli. Tradotto in 26 lingue il libro si appresta a diventare l’opera di fiction, legata al conflitto israelo-palestinese, più letta al mondo.
Susan Aboulhawa è una scrittrice atipica, alle spalle ha una brillante carriera da biologa presso una prestigiosa università americana, occupazione che decide di abbandonare dopo aver visitato Jenin nel 2002 immediatamente dopo l’assedio israeliano che aveva messo in ginocchio il campo profughi palestinese.
In quegli anni, Susan aveva iniziato a seguire il conflitto e a scrivere articoli per diverse testate: Daily News di New York, Il Chicago Tribune, Philadelphia Inquirer e The Huffington Post.
I fatti di Jenin la scuotono profondamente e, pur non avendo nessun legame personale con la città stabilisce di partire. Sarà tra i primi osservatori ad entrare nel campo in gran parte raso al suolo. “Non conoscevo nessuno lì, ma mi hanno accolta e ospitata per un lungo periodo. Ciò a cui assistetti non fu solo l’atroce eredità della violenza, ma la capacità di condivisione di uomini, donne e bambini che avevano perso tutto, famiglia, casa, figli. Persone, che erano state tuttavia capaci di conservare e preservare la propria umanità e provai invidia, per la loro straordinaria forza”.
Attraverso lo sguardo di quattro generazioni di donne l’autrice traccia un affresco dei momenti più significativi della storia palestinese, dal 1948 fino ai nostri giorni. Una narrazione corale che non si limita a descrivere i temi dell’esilio, dell’occupazione, i luoghi della diaspora e lo sradicamento dalle origini ma che pone l’elemento umano al centro degli eventi, per de-costruire il processo di disumanizzazione frutto dei media e di una politica internazionale troppo spesso miope.
Il romanzo si apre nel segno della memoria, una memoria luminosa in cui il lettore ripercorre la quotidianità di un piccolo villaggio, ‘Ain Hod, a pochi giorni dalla Nakba. Il villaggio disteso tra le colline nei pressi di Haifa, come tanti altri, sarà distrutto nel 1948 per diventare un borgo atelier per artisti israeliani provenienti da ogni angolo del mondo.
Tante le figure femminili che caratterizzano il romanzo, artificio letterario per realizzare un continuo richiamo alla maternità, al rapporto madre figlia, alla complicità femminile nell’infanzia, l’adolescenza e l’età matura, che da respiro alla narrazione e che fa emergere sullo sfondo il divario tra il mondo incurante e auto referenziale che assiste distrattamente alla tragedia di un popolo e la vita delle persone che sono quello stesso popolo.
Perchè in letteratura: “si crea uno spazio dove l’umanità può essere recuperata laddove è stata negata”. Il ritorno in un asettico laboratorio segna la decisione di Susan di scrivere un romanzo: “non c’era niente di più contrastante e stridente fra quanto avevo visto, il desiderio di scrivere e la mia professione di biologa”.
La trama del romanzo presenta un richiamo alla celebre opera di Ghassan Kanafani Ritorno a Haifa; in entrambi i lavori, infatti, una madre in fuga disperata dalla guerra perde il proprio figlio che sarà allevato da una famiglia israeliana; ma l’epilogo si rivelerà profondamente diverso. In Ogni mattina a Jenin la perdita di Ismail, figlio rapito di Alia si riverbera amaramente nella perdita della terra.
Dalle vicende e dagli intrecci di una tipica famiglia emerge pian piano l’identità palestinese, una realtà caleidoscopica, un’identità che si rivela essere non solo geografica e che come vive nei luoghi così vive nei cuori.
*Paola Rizet si occupa di Palestina per la ONG “Un ponte per…”
http://www.nena-news.com/?p=9954
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sono sempre stata solidale con il popolo palestinese. Purtroppo, gli ebrei, o gli israeliani, da oppressi durante la Shoa sono dieventati oppressori. Ho letto il libro, sconvolgente, perchè un conto è immaginare la strage sistematica di una razza, altra cosa è viverla attraverso gli occhi dell’autrice.
Ho letto anche “la tenuta Rajani”, scritta da un ebreo, Alon Hilu, e sulle prime ho creduto che l’autore fosse coraggiosamente imparziale, poi mi sono accorta che mai nominava il termine “palestinese”: quegli esseri inetti, superstiziosi, primi di coraggio e a volte di dignità (vedi i due amanti omossessuali) erano sempre definiti “arabi”. Ora penso che ci sia un abisso fra i due libri: che la sofferenza, l’agonia, la dignità e la forza del popolo palestinese siano ben rappresentati da Ogni mattina a Jenin.
E spero che il mondo non continui a distogliere lo sguardo da questa decennale tragedia