admin | January 12th, 2012 – 1:10 am
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“Non prendete in giro voi stessi: la guerra con l’#Iran è già cominciata. La sola domanda è quanto sarà brutta, da ora”. Lo abbiamo pensato tutti, quello che Cal Perry, corrispondente di Al Jazeera International da Gerusalemme, ha scritto ieri, facendolo girare su twitter. Un pensierino conchiuso in uno spazio di massimo 120 battute, quante ne concede un messaggino via twitter. Il più importante cambiamento della comunicazione politica e del suo linguaggio di questi ultimi anni.
Lo abbiamo pensato tutti, quando i tamburi di guerra hanno rullato ieri, dopo la notizia dell’assassinio di un altro scienziato nucleare a Teheran, Mostafa Ahmadi Roshan. Una notizia che è arrivata alla fine di giorni particolari, costruiti su un canovaccio già visto tante volte non solo in Medio Oriente, quando nel teatro globale si rappresenta una possibile guerra. Azioni, risposte, reazioni, provocazioni, paure vere e presunte, in un cocktail che – il più delle volte – esplode senza che si attui un tentativo reale per disinnescare il disinnescabile. Da tutte le parti in causa.
Siamo alla vigilia di una guerra contro l’Iran che coinvolgerà tutti? Lo siamo come, tra 2002 e 2003, lo fummo quando i tamburi di guerra rullavano per l’Iraq (l’Iraq tutto, fatto di donne e uomini, e non per l’Iraq simboleggiato da Saddam Hussein)?Allora vivevo al Cairo, ed era chiaro a tutti che l’intervento americano e inglese sarebbe stato dolorosissimo, oltre che ingiusto. Ora vivo a Gerusalemme, ed è altrettanto chiaro che un conflitto con al centro l’Iran avrebbe conseguenze non solo catastrofiche, ma imprevedibili, anche se non soprattutto per l’Occidente.
Quanto sarà catastrofica una possibile guerra contro l’Iran lo dirà la storia, ma certo ciò che sta succedendo – anche stanotte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – non può non essere considerato come un piccolo tassello del mosaico. Che mostra uno scenario di guerra, non certo quello di una mediazione. Sanzioni dell’Occidente, dimostrazioni provocatorie di forza da parte di Ahmadinejad, portaerei che si muovono nel Risiko solito, sempre dalle parti dello Stretto di Hormuz. E poi gli attentati agli scienziati, appunto. E infine le notizie che si pensa non siano collegate, e che invece hanno comunque qualche aggancio con quello che potrebbe (o non potrebbe) accadere tra Israele e Iran. Compresi, solo per fare l’esempio più eclatante, anche i recenti cambiamenti nel più stretto circolo attorno al presidente Barack Obama, dove il capo di gabinetto William Daley ha lasciato dopo appena un anno, lasciando il posto a Jack Lew. A mettere insieme Casa Bianca e questione iraniana, in questo caso, è la riflessione nei circoli ebraici americani riportata dal Jerusalem Post.
There had been speculation in the organized Jewish community about whether Obama would fill a top spot with someone close to the Jewish community after the departure last month of Dennis Ross, who had been Obama’s top Iran policy adviser.
Cosa potrebbe significare, allora, l’arrivo di Lew, ebreo ortodosso, vicino a Obama? Un modo per ricucire con una parte della comunità ebraica americana, certo. Soprattutto, però, le indiscrezioni del Jerusalem Post sembrano indicare che l’amministrazione Obama non aveva la medesima opinione dei modi da usare per contenere il programma nucleare iraniano. Gli americani non sarebbero, insomma, per l’opzione militare, come ha fatto chiaramente intendere, più volte, il segretario alla difesa Leon Panetta.
L’Iran ha indicato per la prima volta in Israele il mandante dell’assassinio dello scienziato nucleare, vittima dell’esplosivo collocato sotto la sua macchina. Una lettura secondo la quale Israele sembra un tutto omogeneo, pronto alla guerra. Così non è, almeno per ora. Perché a occuparsi della crisi iraniana è il governo. Mentre il paese non è solo percorso da un’ondata radicale, religiosa (come dimostra la questione dell’emarginazione delle donne arrivata in superficie nelle scorse settimane) e politica (come mostrano le violenze sempre più diffuse dei coloni ai danni dei palestinesi). Israele sta assistendo anche a cambiamenti politici che non devono essere sottovalutati. Simboleggiati da due uomini molto diversi tra loro, che hanno – però – un importante punto in comune: l’uso della comunicazione. Il primo è Yair Lapid, conosciutissimo volto della televisione israeliana. Si è dimesso dal Canale 2 per buttarsi in politica, ancora una volta in un one man show. Usa Facebook per fare politica, e nessuno ancora capisce quanto sarà importante, in una battaglia elettorale che – a questo punto – si preannuncia ravvicinata. L’altro nome nuovo della politica è, neanche tanto paradossalmente, un nome e un volto che si è imparato a conoscere anche oltre i confusi confini di Israele. Noam Shalit, il padre di Gilad, il soldato israeliano liberato pochi mesi fa nello scambio di prigionieri raggiunto tra Israele e Hamas.
Noam Shalit non è, come ha dimostrato nel suo pluriennale e incredibile sforzo di salvare il proprio figlio, un uomo che corre da solo. Ha percorso Israele a piedi assieme a migliaia di persone, due estati fa, per premere sul governo. Correrà per il partito laburista, in crisi di consenso. Un partito che ha appena affidato a una donna, Shelly Yachimovic, il suo possibile rilancio.
C’è chi, come l’anziano e acuto Shlomo Avineri, è molto critico per l’arrivo sulla scena politica di Lapid e Shalit. Entrambi, però, sembrano espressione di quella discesa in campo dei non-politici che ha segnato il 2011, non solo nei paesi arabi ma anche in Israele. In campo sono scesi anche alcuni dei protagonisti della ‘protesta delle tende’. È la politica strutturata, cristallizzata a essere sul banco degli imputati, proprio nel momento in cui la politica strutturata e cristallizzata gestisce la crisi iraniana. Anche in questi nuovi volti della politica israeliana, forse, è possibile rintracciare un legame con quello che sta succedendo tra le varie cancellerie.
Per la playlist, Lucio Battisti cantato (in inglese) da Tanita Tikaram. And I think of you. Preferisco l’originale, ma non è poi così male.
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