admin | September 15th, 2011 – 12:11 pm
L’ho ritrovata nel mio ‘archivio’, questa foto, scattata in Cisgiordania, di Eduardo Castaldo. Parla – evidentemente – di libertà. Parla di muri. E parla di quello che non si vede, ma che è sotto e al di là dei muri di cemento: la terra. Nella rassegna stampa che mi son letta in questi giorni, sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina in programma per la settimana prossima, il 23 settembre, non ho trovato quasi mai la terra. Eppure, in tutta questa storia, la terra è centrale, non solo dalla parte degli israeliani. Escludere la parola terra, che potrebbe sembrare un gesto estremamente moderno, fuori dalle maglie del nazionalismo vecchio stampo o della retorica filopalestinese, è – secondo me – un modo per non affrontare il gran caos che si sta per scatenare su una Terra non così Santa.
Mettiamo pure da parte la questione dell’identità palestinese, così legata alle zolle, alle stagioni, agli ulivi, agli alberi da frutto, alla terra negata, alla terra altrui (dell’esilio). Concentriamoci – cinicamente e razionalmente – sul dato diplomatico. L’Autorità Nazionale Palestinese vuole un pezzo di terra, e vuole che almeno quel pezzo di terra rappresenti simbolicamente la sua identità, attraverso uno Stato. Vuole, magari, consolidare anche il suo piccolo potere a Ramallah e dintorni. E’ il riconoscimento del proprio essere nel consesso del mondo, prima ancora del riconoscimento di uno Stato. E’ stato, molti mesi fa, un sasso lanciato nello stagno, un ballon d’essai considerato il primo strumento disponibile per rompere – allora – la palude dei negoziati di pace che gli Stati Uniti avevano sponsorizzato senza, però, una strategia precisa sui risultati. Il governo di destra di Netanyahu non poteva, visto il tipo di consenso che lo ha portato al potere, fermare la macchina delle colonie, degli insediamenti, delle gru in Cisgiordania e a Gerusalemme est. L’ANP di Ramallah non poteva, nonostante quanto sia stata incline al compromesso verso gli israeliani, ingoiare anche questo. Perché quel pezzetto di terra che le è rimasto nelle mani (in sostanza, la Cisgiordania delle città e del loro hinterland) si stava e si sta rapidamente erodendo.
Il sasso nello stagno – la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina – è cresciuto con i mesi. Come una torta ben lievitata. E’ diventato una vera e propria proposta politica, anche se alla base non c’è una precisa strategia politica, né ci sarà all’indomani del voto all’Assemblea Generale. Perché quella richiesta è come una macchina in corsa: alla guida non c’è nessuno, ma la macchina – in discesa e in folle – corre lo stesso. E nessuno la potrà fermare, come in fondo è successo nel 1947 con la nascita dello Stato di Israele. Sia perché ci sono i facts on the ground, c’è la realtà, c’è un popolo (palestinese) su una terra sempre più prosciugata, piccola, insufficiente, chiusa dai muri. Sia perché c’è una necessità – terra e identità – che si è inserita dentro le rivoluzioni arabe, in maniera certo distorta, certo contraddittoria, certo tutta politico-diplomatica e poco sociale. Eppure, allo stesso tempo, reale quanto lo sono le richieste di Piazza Tahrir.
I palestinesi sono allo stesso tempo travolti dalla Nahda araba, ne sono ostaggio, ma anche partecipanti a tutti gli effetti. E uno dei nodi del Secondo Risveglio arabo è qui, tra Gerusalemme, Gaza, Ramallah, i campi profughi, le città arabo-israeliane. La richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è, in modo sotteso ma reale, una delle richieste della Nahda del 2011. Non perché lo abbia ripetuto Recep Tayyep Erdogan in una iconica Piazza Tahrir, ma perché Erdogan è un fine politico che conosce il disagio e la rabbia di chi si sta sollevando nei paesi arabi. Dignità e rispetto, due tra le parole usate nelle piazze arabe, valgono per la dimensione nazionale, e al tempo stesso per quella regionale. I palestinesi, ostaggio per decenni dei regimi arabi foraggiati, molti, dall’occidente, sono al tempo stesso per le opinioni pubbliche arabe simbolo del doppio standard occidentale e del rispetto che i propri regimi non hanno avuto per i cittadini. Lo Stato di Palestina racchiude, dunque, una doppia valenza nell’immaginario arabo.
Diverse, ovviamente, le parole usate nel discorso palestinese. Qui lo Stato di Palestina è riflessione politica tout court. Fuori dalla questione dei finanziamenti occidentali all’ANP, che potrebbero subire una forte diminuzione se vi fosse il riconoscimento. Per i palestinesi la domanda è: questo Stato di Palestina conchiuso entro i confini (virtuali) del 1967, tra Cisgiordania e Gaza, e ancor più virtualmente Gerusalemme est, rappresenta terra, libertà, identità e indipendenza? Chi lascia fuori, e perché lo lascia fuori? Dal punto di vista delle dinamiche strettamente politiche, la presa di distanza di Hamas verso la macchina in corsa del riconoscimento dello Stato di Palestina indica già cosa bolle in pentola. Basata sul consenso dei rifugiati, la forza di Hamas rischia molto sul riconoscimento: rischia che la sua constituency la ritenga responsabile di essere stata eliminata dalla fotografia, dallo stato dell’arte, dalla realtà di un’identità palestinese che va ben oltre i confini del 1967. Espunti i rifugiati, cosa resterebbe? I palestinesi cisgiordani e gazani, neanche tanto quelli gerosolimitani. E men che mai i palestinesi che hanno in mano un passaporto israeliano, quelli di Nazareth e di Haifa, di Umm al Fahm e di San Giovanni d’Acri. Ha senso, dunque, uno Stato di Palestina che nei fatti di tutti i giorni è un bantustan, e nella sua stessa composizione non rappresenta se non una piccola parte dell’identità palestinese?
La discussione interna è tutta qui, su terra e identità, su terra e indipendenza. Lontana anni luce dalle parole della rassegna stampa mainstream: processo di pace, soluzione dei due Stati, sicurezza di Israele, Oslo, pace, pace, pace. Qui la pace è una parola che non ha più, nelle pieghe di quelle poche lettere, un senso. Qui si parla di altro, oltre al vocabolario quotidiano dello stipendio, delle bollette, dei checkpoint, degli autobus, dei muli e delle macchine. Qui si parla del proprio posto nel mondo. E domani, per spiegarvelo meglio, vi parlerò di scuola, di programmi scolastici, di storia, e di benzina sul fuoco.
L’International Crisis Group ha pubblicato il 12 settembre un rapporto estremamente lucido sulla questione. Non lo condivido del tutto, ma lo trovo invece perfetto sia quando descrive le dinamiche interne alla leadership palestinese che hanno portato alla richiesta di riconoscimento, sia quando spiega la mancanza di strategia degli Stati Uniti e l’impossibilità, ora, di ricominciare i negoziati tra israeliani e palestinesi.
Per una prospettiva altra, quella di uno scrittore indiano, dunque non allineato, dunque asiatico, il Guardian ha pubblicato ieri un commento di Pankaj Mishra. E ve lo consiglio caldamente. E’ un bignami della storia diplomatica e culturale dell’India sul Medio Oriente. Ogni tanto dovremmo cambiare sguardo, stra-volgerlo, per capire meglio il mondo.
Nella playlist di oggi, e come poteva essere altrimenti, c’è Shadia Mansour, col suo Tribute to Mahmoud Darwish. Non è solo un omaggio al più grande poeta palestinese. Serve a comprendere come mai, per i palestinesi, il nodo del riconoscimento della propria identità è ineludibile. Come per tutti, d’altronde.
http://invisiblearabs.com/?p=3488
Quest'opera viene distribuita con Licenza Creative Commons. Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.