REDAZIONE 28 LUGLIO 2013
di Robert Fisk – 28 luglio 2013
Aiman Husseini giace accanto alla parete. Khaled Abdul Nasser ha il nome scritto in inchiostro nero sul lenzuolo bianco appena a sinistra della porta. Ci sono 37 cadaveri nella stanza. E’ sommersa dal sangue. I medici hanno le camicie insanguinate. Non c’è voluto molto perché avessimo le scarpe insanguinate. Ce ne sono strisce, marron scuro, dove hanno portato dentro le barelle, anche sulle pareti. L’ospedale vicino alla moschea di Rabaa è affollato di uomini e donne in lacrime. Molti parlano di Dio. “Queste persone sono nel sole”, mi ha detto un medico accanto a me. “Sono con Dio. Noi siamo soltanto nell’ombra.”
Tutti credenti, immagino. E i morti? Forse è necessario un rapporto medico per capire così tanti morti. Colpiti al volto, la maggior parte; molti negli occhi, molti al torace. Ho visto un solo cadavere che mi hanno detto è stato colpito alla schiena. La maggior parte dei volti che mi hanno mostrato aveva la barba. Un massacro? Quasi certamente. E questi erano solo alcuni dei morti. Cosa diavolo ha inteso fare il generale Abdul-Fattah al-Sisi quando venerdì si è appellato agli egiziani perché lo sostenessero nelle strade?
Queste uccisioni hanno avuto luogo nelle ore precedenti l’alba. La polizia, hanno detto tutti, ha aperto il fuoco, prima sparando a pallini, poi con raffiche di pallottole mentre membri della Fratellanza Mussulmana guidata da Mohamed Morsi sfilavano accanto alla tomba del presidente Anwar Sadat, egli stesso assassinato 23 anni fa da un islamista chiamato Khalid al-Islambouli, nientemeno che un tenente dell’esercito egiziano, non lontano dalla moschea. Chi ha sparato per primo? Beh, tutti i morti erano Fratelli Mussulmani o loro amici o familiari. Non c’erano poliziotti morti.
La Fratellanza ha detto che i suoi erano disarmati, cosa che può ben essere vera, anche se devo dire che un uomo di guardia a un parcheggio vicino alla moschea, che mi ha indirizzato all’ospedale, aveva un kalashnikov. Vivendo a Beirut sono cresciuto abituato a vedere armi in mano a giovani, ma sono rimasto piuttosto impressionato nel vedere quest’uomo in maglietta blu portare un’arma automatica. Ma è stato l’unico uomo armato che ho visto.
Ma perché è dovuto succedere questo? Ahmed Habib, un medico, mi ha detto che in tutta la sua vita non aveva mai visto morti in scala simile – e va ricordato che io stavo vedendo solo alcuni degli egiziani morti – e che aveva usato in due ore attrezzature mediche buone per due settimane. “Guardi il sangue sui miei vestiti”, mi ha gridato. Molti dei medici erano distesi all’esterno della stanza dei morti, a dormire sul pavimento sporco, esausti dopo aver cercato per tutta la mattina di salvare vite.
Nessuno ha incolpato l’esercito, il che toglie d’impaccio al-Sisi come generale, ma non come capo del colpo di stato che ha chiesto al popolo dell’Egitto di appoggiarlo nella sua lotta contro il “terrorismo”. Né lo discolpa come padre. Il generale ha tre figli e una figlia, ma anche i 37 morti che ho visto erano figli dell’Egitto, certamente meritevoli di qualche compassione. Che appartenessero alla Fratellanza – se vi appartenevano tutti – ciò non li rende “terroristi”. Venerdì sera ho detto a molti amici che temevo che ci sarebbero stati dei morti nelle strade del Cairo. Questo significa che io, un semplice straniero, temevo la sala mortuaria che ho visto e che al-Sisi – un grande generale – non poteva prevederlo?
“Ci dicono che adesso siamo una minoranza e dunque non meritiamo di vivere”, mi ha detto un altro medico. Non mi è piaciuto il tono propagandistico, ma erano minuti drammatici in una stanza piena di cadaveri, e dunque molto del personale medico si muoveva letteralmente sopra i cadaveri e i loro lenzuoli. Erano stati portati via dalla stanza su barelle sotto i lampi delle macchine fotografiche – nessuno ha perso l’occasione del martirio delle Fratellanza e molte volte all’esterno è stato invocato il nome di Dio – e caricati sulle ambulanze in fila accanto alla moschea, nel caldo del mezzogiorno.
Molti hanno detto le cose che si dicono quando si è di fronte a una tragedia. Che non avrebbero mai ceduto, che sarebbero morti piuttosto che sottomettersi al dominio dell’esercito – questo è un paese, ricordate, dove dobbiamo credere che il colpo di stato non abbia avuto luogo – e che Dio è più grande della vita stessa, certamente più grande di al-Sisi, un’affermazione con la quale il generale sarebbe ovviamente d’accordo. Il dottor Habib ha insistito che esiste un aldilà che – trovandoci in un luogo di morte – ammetto di avergli chiesto di dimostrare. “Perché non siamo animali, a cibarci e bere acqua per tutta la vita. Pensa che quella sia l’unica ragione della nostra esistenza?”
Dietro l’ospedale c’erano molti uomini che erano stati feriti ai piedi, molti gementi per il dolore. Ma sono stati i morti che hanno attirato la nostra attenzione, morti così di recente che i loro volti non avevano ancora assunto le sembianze della morte. Un paramedico ha avuto difficoltà a chiudere gli occhi di un cadavere e ha dovuto chiedere aiuto a un medico. Nella morte, a quanto pare, si deve sempre sembrare di dormire. E, per quanto possa apparire un cliché, mi chiedo se questa sia oggi la condizione dell’Egitto.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: The Independent
Traduzione di Giuseppe VolpeTraduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/11764
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