Tra il voto, la piazza e l’ancien regime

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admin | November 28th, 2011 – 10:24 am

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Il grande, orgoglioso e incredibile popolo egiziano è in fila da stamattina, dicono i testimoni. Un po’ di disorganizzazione (lo stereotipo direbbe: è normale, in Egitto), ma l’atmosfera – a giudicare dalle descrizione – mi sembra molto simile a quella che ho respirato nel marzo scorso, quando c’è stato il referendum sugli emendamenti costituzionali. Il grande, orgoglioso e incredibile popolo egiziano è in fila nelle prime elezioni libere da decenni. Solo in 9 governatorati, e solo nel primo dei tre turni in cui le elezioni sono state suddivise, in linea con quello che è stato fatto anche nelle precedenti consultazioni. Migliaia di magistrati a vigilare sul voto (ricordiamo, nel 2006, la protesta del Club dei Giudici contro Hosni Mubarak), e semplici cittadini che stamattina riempiono twitter di vere o presunte violazioni… Già questo basterebbe a dire che queste elezioni sono diverse. Manca, in fila, Alaa Abdel Fattah, uno degli attivisti più noti di Tahrir. La sua detenzione è stata ‘allungata’ di altre 15 giorni: uno dei protagonisti della rivoluzione non può votare nelle prime elezioni libere, mentre sua madre è al ventesimo giorno di sciopero della fame.

Non sono elezioni contro Tahrir, anche se non pochi tra i ragazzi di Tahrir hanno deciso di boicottarle (a proposito, ne parla anche ‘Ala al Aswani intervistato da Ugo Tramballi del Sole24Ore). Sono elezioni. E cioè uno dei pilastri della democrazia. Non l’unico.

E’ importante ricordarlo, perché la rivoluzioen egiziana non si è conclusa, e perché i tentativi del vecchio regime di sopravvivere a se stesso non si sono fermati. E’ per questo che ho scelto un’immagine provocatoria per iniziare questo post che dovrebbe, invece, sprizzare solo gioia. E’ un poster che ritrae Omar Suleyman, il numero due del regime di Hosni Mubarak, sbandierato nella manifestazione tenutasi nel quartiere di Abbassiya al Cairo a sostegno del Consiglio Militare Supremo. E’ un uomo di cui si è parlato pochissimo in questi mesi, dopo un suo primo tentativo di succedere a Hosni Mubarak nei primi giorni della rivoluzione. Tentativo, peraltro, appoggiato dagli Stati Uniti e ben visto da Israele. Di Omar Suleyman, potente capo dei servizi di sicurezza che hanno fatt il bello e il cattivo tempo in Egitto per decenni, forse l’uomo addirittura più forte di Hosni Mubarak, non si è detto quasi nulla. Se non, qualche settimana fa, che era partito per fare lo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca. Nessun processo, per lui. Eppure, Hosni Mubarak e i suoi figli sono nella prigione di Tora. E nelle carceri ci sono 12mila civili processati dai tribunali militari. Non c’è, invece, Omar Suleyman, la cui foto invece campeggia su un poster che recita – in sostanza – ‘vogliamo che ritorni’.

Cosa significa, proprio nei giorni in cui la questione della sicurezza quotidiana degli egiziani è stata brandita contro Tahrir, contro la richiesta che i militari si ritirino nelle caserme per lasciare spazio a un’autorità civile con pieni poteri? Cosa fa Suleyman? E’ tornato un privato cittadino, oppure continua in qualche modo il suo ruolo? Sono domande che non sono dettagli, soprattutto in questi giorni così delicati per la transizione egiziana alla democrazia. Hanno a che fare con le elezioni, e con il ruolo che la politica della strada ha, nell’Egitto futuro.

File per andare a votare, a downtown al Cairo, sin dalla prima mattina.

Sono infatti d’accordo con Mona el Ghobashy, quando spiega la “politica della strada”  in Egitto come non alternativa alle elezioni, ma come una componente essenziale della rivoluzione egiziana, che rimette in discussione la categorizzazione delle transizioni dalle autocrazie alle democrazie. Lo scontro reso palese dall’ultima fiammata a Tahrir degli scorsi giorni – dice bene Mona el Ghobashy in un lungo articolo sulla Boston Review – non è tra islamisti e laici, come frettolosamente (e magari alcuni in malafede) hanno scritto sui giornali occidentali. E’ tra un “potere oligarchico che cerca di conservare il regime precedente” e “la sovranità popolare che cerca, invece, di trasformare il regime”. Tra “potere militare” e “politica delle masse”.

In the initial days of their  uprising, Egyptians succeeded in peeling off the high military command  from Mubarak. With the deposed president out of the way, citizens  confronted oligarchic military rule directly, resisting the junta’s  attempts to reestablish the old order.  The dynamic now driving  Egyptian politics is not competition between Islamists and secularists,  as some Western politicians and pundits have suggested, but between  military rule and mass politics. Political parties and presidential  candidates constantly adjust their antennae to these two poles of  political influence, attending the Tahrir Square rallies to show their  revolutionary credentials and simultaneously expressing measured  deference to the generals.

Motivo per il quale, seppur magari sviluppando forme diverse, la street politics in Egitto non finirà.

The Egyptian transition is not being engineered through decorous elite  pacts, wise political leadership, or committed democrats full of trust  for one another. The Egyptian revolution has yielded precious few  visionary leaders, but many vigilant, mistrustful ordinary citizens.  They will be the pacemakers of Egypt’s new political order, continuing  the kind of street politics they resorted to by necessity and refined  into a national style.

Stamattina ho fatto un intervento a Start, il programma in onda alle 10 e 30 su Rai Radio1.

A proposito di street politics e di Tahrir, ecco il link alle foto di Eduardo Castaldo. In diretta dalla piazza. Bellissime.

E il brano della playlist? Scelta difficile, oggi. Scelgo Masar, del Trio Joubran. Intanto, perché è uno dei loro brani più belli. E poi perché li ho ascoltati l’altra sera, a Gerusalemme est, in concerto. Uno strano concerto, in una scuola, di cui vi racconterò in un altro post.

 

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