1.a – Premio Paolo Borsellino a Vik. Un ricordo da Gaza.
Oggi Egidia Beretta, la mamma di Vittorio, è andata a ritirare il premio Paolo Borsellino, che quest’anno è stato assegnato a suo figlio. Sul sito ufficiale è possibile leggere che “Il premio intende testimoniare ammirazione, gratitudine ed affetto a quelle personalità italiane che hanno offerto una testimonianza d’impegno, di coerenza e di coraggio particolarmente significativa nella propria azione sociale e politica contro la violenza e l’ingiustizia, ed in modo particolare per l’impegno profuso in difesa e per la promozione dei valori della libertà, della democrazia e della legalità.”
Qui a Gaza Vittorio viene ricordato come un amico e come un fratello, e la sua memoria rimarrà indelebile nei cuori di questa gente. In tanti lo consideravano un membro della loro famiglia, in troppi si sono sentiti come se fosse morto un loro fratello. Per questo, oggi, vorrei dare voce ai suoi amici, a chi da Gaza ha deciso di ricordarlo, a chi, alla notizia dell’assegnazione del premio, ha pensato fosse bello mandare un messaggio in sua memoria. I messaggi sono molto diversi tra loro, come le persone che li mandano: ve li riporto così come sono, senza la pretesa di dare un quadro completo di “cosa Gaza pensa di Vittorio”, ma con la volontà di dare voce a chi vorrebbe comunicare con amici e parenti di un uomo che vedevano come un fratello.
Il dottor Ala è medico all’ospedale Al Auda, ha lavorato al fianco di Vik durante piombo fuso, Vik sulle ambulanze e lui dentro l’ospedale. Anche dopo la fine del massacro l’attivista ha continuato a contattarlo per curare malati di Gaza. O semplicemente per cenare assieme e passare qualche momento rilassato in compagnia. Queste sono le sue parole:
Vittorio aveva dei muscoli potenti, ma li usava solo per giocare con i bambini. Era grande e grosso, ma aveva il cuore di un bambino. Era un eroe nell’evacuare i palestinesi feriti durante la guerra. Esponeva se’ stesso al pericolo, pur di difendere pescatori e contadini dalle aggressioni di Israele.
Anche quando aveva i calcoli ai reni aveva fretta di unirsi agli agricoltori per proteggerli: aveva superato il dolore per aiutarli. Conosceva le strade di Gaza e dintorni meglio degli stessi abitanti del posto che sono nati qui.
Cinque giorni prima che Vittorio morisse gli dissi di tornare a casa perchè suo padre che era malato aveva bisogno di lui, lui rispose che Gaza aveva bisogno di lui più di suo padre. Mi disse: “voglio molto bene a mio padre, ma lui ha un paese e servizi a disposizione, mia madre e mia sorella sono con lui…qui a Gaza siamo troppo pochi”.
Vittorio è una candela che brucia per illuminare il cammino di altri. Riposa in pace ribelle italiano! Sei il Che Guevara del 21° secolo…i palestinesi non ti dimenticheranno mai. Con amore a te, nostro caro amico, alla tua famiglia ed ai tuoi amici italiani.
Saber è leader della “local initiative Beit Hannoun”, organizzava le manifestazioni al confine di cui Vik raccontava sempre.
“Su questa terra c’è qualcosa per cui valga la pena vivere”
Si può dedicare la propria vita alla dignità umana, alla libertà, in difesa del nostro stesso essere “umani”, ed è questo che Vittorio ha sempre fatto. Egli ha lottato stando dalla parte degli oppressi contro l’oppressione qui nei territori palestinesi occupati, terra di pace e luogo natale di Gesù (pace a lui).
Dando la sua voce per la giustizia, Vittorio ha sempre difeso i diritti umani e cercato di trasmettere al mondo le sofferenze di un intero popolo.
Nonostante la morte del nostro amato, tantissimi giovani di Gaza stanno portando avanti il suo messaggio e la sua cultura, continuando questa lotta e seguendo il suo cammino di libertà ed indipendenza.
Un’ultima parola: “prima di pensare qualsiasi cosa, ricordati che sei un essere umano”
Il nostro messaggio dalla terra di Oliva, dove la libertà e la giustizia portano alla pace.
Taraji non ha avuto il piacere di conoscere approfonditamente Vik. È una delle tante e dei tanti che lo hanno incrociato per poche decine di minuti, ma lo ricorda vividamente.
È entrato in questa casa e si è seduto con noi, alla pari. Ci ha ascoltate, ha ascoltato la nostra sofferenza. E come con noi, ha ascoltato ed aiutato tutti quelli che ha potuto qui a Gaza, aveva certamente una forte umanità.
Vorrei dire a sua madre che deve andare orgogliosa di suo figlio, vorrei avere l’onore di conoscere una donna così…e le auguro una vita felice!
Jabur è un contadino, vive a Faraheen. Parte della sua casa è stata distrutta in un’incursione, Vik con altri ISM all’epoca ha abitato li per un certo tempo. La terra che Jabur coltiva si trova a poche centinaia di metri dal confine, ed è uno dei contadini che anche Vik accompagnava durante le “farming actions”.
In nome di Allah il misericordioso
Vik l’eroe che ha lottato per la Palestina
Che bei momenti abbiamo passato insieme, fratello Vittorio! Se gli occhi non ti vedono più, il cuore non ti dimentica. Dicevi che nella vita ci sono molte cose per cui ridere, e davvero i momenti passati con te sono tra i più gioiosi. Pensavo che la morte fosse lontanissima per te, non me lo aspettavo, però è successo. Così voglio dire alla tua gente: “Non cambiate idea riguardo noi palestinesi. Vi posso assicurare che Vik è dentro ogni goccia del mio sangue. Saluto e rispetto sua madre, e le dico, mentre nasconde le lacrime dietro un sorriso, che suo figlio non è morto, che è qui dentro di noi, siamo tutti suoi figli, figli che non ha mai partorito. Vorrei abbracciare sia lei che il padre di Vittorio, vorrei essere loro vicino in questo momento.”
Shahd è una giovanissima blogger ed artista di Gaza. Stava realizzando un ritratto di Vik nel periodo in cui è stato ucciso, lo ha terminato dopo la sua morte.
È l’immagine in testa a questo post.
Il terzo giorno del tuo funerale, tua madre ha fatto una chiamata in diretta con noi, ho tradotto il suo messaggio in arabo. Tua madre è grande come te. Ci siamo uniti nel dolore per questa perdita, e riuscì a fare in modo che l’Italia e Gaza cantassero assieme uniti in una sola voce “Bella Ciao”.Mio caro Vik, voglio che tu sappia che ci hai lasciato nel corpo ma l’anima vivrà con noi per sempre. Voglio essere sicura che tutti coloro che credevano in te e nella causa palestinese continuino a seguire il tuo percorso. Vorrei che tu sapessi che sei il nostro eroe, puramente umano. “Restiamo umani”, è così che sei stato tutto il tempo ad ogni passo che hai compiuto. Vittorio, sei il vincitore, tu sei il sognatore che non si arrende mai, così, mio caro amico, possa tu riposare in pace.
Eba’a è una blogger di vent’anni. Era molto amica di Vik, ed ha tatuata sui polsi la sua frase “restiamo umani”.
Ancora oggi per me è difficile fare i conti con l’assenza del corpo materiale di Vik tra noi. È appunto per fare in modo che lui sia sempre ed ovunque con me che ho deciso di tatuarmi le sue parole, che sono di ispirazione per tutta Gaza “Restiamo Umani” sui polsi. Il suo messaggio era così chiaro e puro, la sua vita votata alla giustizia, libertà ed uguaglianza. Siamo tutti non solo suoi amici, ma anche suoi allievi: abbiamo imparato tanto da lui. Non era solo un combattente per la libertà (freedom fighter) ma anche un vero amico, di quelli che vorresti sempre avere al tuo fianco nel momento del bisogno. Era pieno di amore, tutto l’amore che ha ricevuto qui a Gaza. “loro” pensavano fosse un corpo, che fosse possibile ucciderlo: non avevano capito che è un’idea che non morirà mai.
Era umano.
Mahfuz è un pescatore, è anche il presidente dell’associazione dei pescatori e degli sport marini, insieme a Vik organizzava gli accompagnamenti in mare. Lui, come tutti i pescatori di Gaza, conserva un ricordo vivissimo di Vik.
Le parole non possono descrivere i sentimenti per il nostro caro amico Vittorio. Hai avuto una vita breve ma sei stato molto generoso. Il tuo messaggio è stato lanciato a tutte le persone oneste, tu eri e sei ancora la voce della giustizia, della pace attiva, hai combattutto contro la povertà e l’ingiustizia. Il tuo nome è stato scritto con inchiostro d’oro nella storia, riposa in pace Vittorio, i tuoi genitori ed i tuoi amici dovrebbero essere orgogliosi di te!
Ci manchi tantissimo ma il tuo esempio rimarrà di ispirazione per noi.
Ayman è un rapper, il primo rapper di Gaza. I soldati israeliani hanno ucciso suo padre di fronte ai suoi occhi durante piombo fuso. Si sedeva spesso, la sera, al Gallery (un bar di Gaza) a fumare il narghilè o semplicemente a chiacchierare con Vittorio. Così è come lo ricorda:
Ci sono due tipi di persone, quelli che muoiono e quelli di cui muore solo il corpo. Ricordo ancora ogni momento speso con lui, tristezza, frustrazione, e mancanza di speranza per il futuro, però continuo a cercare di sorridere perchè voglio essere quello che lui avrebbe voluto da me:
“Un essere umano libero, con dignità e fiero di esserlo”.
Dio benedica la sua anima.
Restiamo Umani.
Per alcuni degli amici di Vik scrivere riguardo lui è ancora difficile, talvolta, sapete, le parole sembrano sempre inadatte. In molti, molti altri che non hanno avuto voce in queste poche righe qui lo ricordano col cuore.
Pubblicato da Silvia Todeschini a 11:56 AM
http://libera-palestina.blogspot.com/2011/10/oggi-egidia-beretta-la-mamma-di.html
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venerdì 28 ottobre 2011
2.a – Escalation a Khuza’a
Testimoni parlano di un’escalation delle aggressioni israeliane nella zona di Khuza’a – Abasan, governatorato di Khan Younis, striscia di Gaza.
Questa mattina, dalle 7.30 alle 8.30 c’è stata un’incursione di carri armati israeliani in territorio palestinese che si sono mossi dal territorio di Faraheen a quello di Khuza’a. Si sono uditi anche numerosi colpi di proiettile. Suzanne, che vive nel nord di Khuza’a, ha confermato che negli ultimi giorni i carri armati sionisti entrano al di qua delle recinzioni un giorno ogni due, e che i giorni in cui non entrano in territorio palestinese comunque pattugliano il lato israeliano. Anche Taragi dal sud di Khuza ha confermato che nell’ultimo periodo gli spari si sono fatti più insistenti.
Due attiviste ISM (io e Radhika) oggi alle 4.30 stavano camminando sulla strada che porta alla scuola del villaggio di Khuza’a, ad una distanza di circa 500 metri dal confine, il luogo era popolato da bambini e ragazzi, alcuni a piedi ed altri in un carretto trainato da un asino. Stavano semplicemente percorrendo la strada per andare a casa. Senza preavviso di alcun tipo, e senza alcun colpo di avvertimento, dalla torre sionista a controllo remoto sono partiti due colpi di arma da fuoco, sufficientemente vicini alle teste di chi camminava tranquillamente per la strada da sentire distintamente e forte il sibilo del proiettile che attraversava l’aria.
Khuza’a è un piccolo villaggio principalmente di contadini, e l’area che lo circonda non è nuova ad attacchi ed incursioni da parte dei sionisti. La scuola in particolare si trova a poche centinaia di metri dal confine e spesso i bambini sono costretti a tornare a casa a causa degli spari. C’è un caso, ad esempio, di una ragazza che ha perso la rotula a causa di un proiettile sionista mentre stava camminando per tornare a casa da scuola. Fino a dieci anni fa in quest’area c’erano numerosi alberi da frutto e la terra veniva coltivata rendendo piuttosto bene. Oggi viene coltivato principalmente grano, perchè non chiede tanta attenzione e quindi non rende necessario recarsi sul posto di frequente; infatti spesso anche i contadini vengono attaccati.
Khuza’a ha sofferto le peggiori atrocità durante l’attacco terrorista israeliano denominato piombo fuso. La maggior parte della popolazione è stata costretta ad abbandonare il villaggio per recarsi in luoghi più sicuri, ha subito pesanti attacchi al fosforo bianco, sono stati deliberatamente bombardati ed uccisi civili durante il cessate il fuoco, sono state uccise donne che dopo giorni di assedio in casa si presentavano all’uscio con una bandiera bianca.
Pubblicato da Silvia Todeschini a 9:21 PM
http://libera-palestina.blogspot.com/2011/10/escalation-khuzaa.html
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venerdì 28 ottobre 2011
3.a – Racconto di un prigioniero deportato a Gaza
Loay Auda, nelle carceri israeliane dal 2002, è stato liberato durante l’ultimo scambio. Originario di Gerusalemme, è stato deportato a Gaza.
Il racconto dell’arresto inizia con le parole dalla madre, umm Izrod: “Era il 5 aprile del 2002, durante la seconda intifada. Mio figlio mi ha chiamata dicendo che finalmente potevamo incontrarci, potevo riabbracciarlo, vedere come stava. Era nascosto da 9 giorni a Ramallah, dove c’era il coprifuoco, perchè era ricercato dalle forze di occupazione sionista. In quegli interminabili 9 giorni non lo ho mai sentito, così siamo riusciti a trovarci in una casa di mia sorella, che lei non usava perchè era andata ad abitare altrove. Ci siamo seduti, abbiamo cucinato patate fritte e bevuto il caffè, poi Loay si è fatto una doccia, dato che da nove giorni non riusciva a farla, poi eravamo stanchi e siamo andati a dormire”. Sembra tutto tranquillo, finalmente una serata normale, ma non è così: “alle due di notte ho sentito dei rumori. Ho pensato fossero le pattuglie che controllavano il rispetto del coprifuoco, ma poi ho sentito i soldati che ci chiamavano con i nostri nomi: “venite fuori con le mani alzate” dicevano. Ho provato a svegliare mio figlio “alzati, alzati, ti stanno venendo a prendere!” e lui non si svegliava, chissà da quanti giorni non riusciva a dormire bene. Da fuori continuavano a chiamare i nostri nomi e cognomi. Lo ho svegliato con più energia, eravamo completamente circondati, non saremmo mai riusciti a scappare. I soldati tiravano pietre alle finestre, continuavano a chiamarci e noi non rispondevamo. Abbiamo cominciato a parlare dell’arresto, ci dicevamo l’un l’altra: “dobbiamo essere forti e non parlare, non dire nulla. Anche se ci tortureranno, dovremo resistere.” Ad un certo punto, in quella baraonda ci siamo trovati anche a scherzare e a prenderci in giro… Attorno a noi i sionisti avevano un gran dispiegamento di mezzi: elicotteri, carri armati, bulldozers… sembrava quasi che ci stessero per bombardare!”
“Alle 6.30 abbiamo sentito aprirsi la porta di casa. Erano andati a casa di mia sorella a prendere le chiavi, ed avevano usato i suoi figli come scudi umani per aprire la porta.” Evidentemente, l’uso di bambini come scudi umani non è una novità di piombo fuso ma una pratica consolidata. “Sono uscita, ed ho cercato di tenere impegnati i soldati, mi dicevano di chiamare mio figlio, io non volevo venisse perchè ero convinta che se fosse uscito gli avrebbero sparato.” Quando lui è uscito, la madre, terrorizzata, ha cercato di proteggerlo dai soldati con il suo corpo. I soldati si sono arrabbiati: “sono cinque ore che vi chiamiamo, che vi intimiamo di uscire, cosa siete, sordi?”.
“Hanno preso mio figlio e lo hanno messo sul marciapiede per interrogarlo. Io gli ho portato prima le scarpe e poi le sigarette, i soldati mi insultavano. Era completamente buio, per strada c’erano solo le forze dell’occupazione a causa del coprifuoco, ma vedevo i vicini che spiavano dalle finestre. Ho detto a mio figlio: “Tu sei il più grande. Li vedi tutti questi cani che ti circondano? Non valgono quanto la suola della tua scarpa. Resta forte che ti rilasceranno”. Lui mi ha risposto: “mi rilasceranno solo da vecchio” ed un soldato è intervenuto “spero che tu muoia prima di essere liberato”. Gli hanno messo la benda agli occhi e mi hanno chiamata per baciarlo l’ultima volta, lo hanno caricato sulla jeep ed è partito.”
Da questo punto in poi è Loay a raccontare come sono andate le cose. Sulla strada per la prigione la jeep si è fermata e lo hanno fatto scendere. Lo hanno tempestato con una pioggia di domande, minacciandolo di vendicarsi su sua madre (accusata di aiutare un “terrorista”) se non avesse parlato, e sfruttando il momento di possibile fragilità psicologica dell’arrestato. “Ad un certo punto mi hanno sollevato la benda e slegato mani e piedi -racconta- per vedere se fossi scappato. Se lo avessi fatto mi avrebbero sparato, ed io lo sapevo, quindi sono rimasto fermo.”
Il primo perido di detenzione, quello del cosiddetto “interrogatorio” è probabilmente il momento peggiore per ogni detenuto. Vengono applicate torture psicologiche e fisiche per cercare di ricevare informazioni sulle attività dei detenuti stessi ed anche su altre persone. L’interrogatorio di Loay è durato 55 giorni e si è svolto a Gerusalemme, nel carcere di Mascobyya, una ex chiesa russa occupata e sfruttata per gli interrogatori.
“Ero accusato di qualsiasi cosa, era durante la seconda intifada, stava succedendo di tutto. Volevano estorcere informazioni non solo riguardo le mie attività ma anche riguardo i miei compagni. Le torture erano più psicologiche che fisiche. I sionisti avevano imparato che se ci torturavano fisicamente rimanevano le prove, mentre le torture psicologiche erano più difficili da provare. Ci minacciavano di arrestare membri della nostra famiglia. Ci facevano stare legati ad una sedia per giorni consecutivi. Ci facevano stare legati in stanze con musica altissima.”
Loay è stato trasferito moltissime volte: all’inizio era rinchiuso ad Askalan, poi Beid Sheba, poi Ramla, poi Ashkaron, Gelboa, Shatta ed infine di nuovo Gelboa. “In carcere ci organizzavamo” racconta “i componenti di ciascun partito sceglievano un portavoce, ed i portavoce discutevano la strategia da adottare in maniera unitaria. Nessuno era autorizzato a parlare con i carcerieri eccetto colui a cui collettivamente si aveva dato quell’incarico”. Racconta che in carcere i prigionieri dovevano soppostare le violenze dei poliziotti, perquisizioni umilianti, punizioni collettive, giorni di isolamento se si fossero violate le regole. C’era solo un’ora o due di aria al giorno, le visite delle famiglie spesso erano proibite, il cibo era poco e la dieta non era salutare.
Ha partecipato all’ultimo sciopero della fame, e questo è il suo racconto in proposito: “La nostra richiesta principale riguardava la fine dell’isolamento. Chi era in isolamento veniva rinchiuso in una cella piccolissima da solo, l’ora d’aria, quando c’era, si faceva ad orari strani, lontani dagli altri carcerati e comunque legati. Dopo due anni in questa situazione le ripercussioni psicologiche sui detenuti cominciano a diventare davvero gravi. In quel momento più di 30 prigionieri si trovavano in isolamento, per periodi che andavano da un anno a 13 anni; 10 o 15 di questi erano in isolamento per lunghi periodi. Akhmad Sa’adat era al terzo anno di isolamento e la sua salute psicologica e fisica si stava deteriorando. Prima facevamo qualche breve sciopero, un paio di giorni al massimo, ma era venuto il momento di andare fino in fondo. La situazione poi era peggiorata anche dalla cattura del soldato Shalid, ci attaccavano di più per cercare di fare più pressione per il suo rilascio. Non potevamo studiare, non ci concedevano libri. Era venuto in somma il momento di farsi sentire. Ci eravamo organizzati per un’escalation delle proteste. All’inizio sono partiti a scioperare in 70-60, poi a questi ogni settimana si aggiungevano altre persone. Per esempio io mi sono aggiunto l’ultima settimana, col gruppo più grosso, c’erano già 420 persone e noi eravamo 300.” Lo sciopero non era ristretto al cibo, c’era anche una forma di non collaborazione dei detenuti verso i sionisti: “Avevamo smesso di collaborare alla conta, tutti insieme non ci alzavamo più in piedi quando era il momento, e per questo ci avevano privato in quel periodo di qualsiasi visita di famigliari o avvocati.” Nella carceri israeliane i prigionieri vengono contati più di una volta al giorno, quando passa il carceriere sono costretti a stare in piedi di fronte all’ingresso della cella, in condizioni normali se si rifiutano vengono puniti con percosse o con qualche giorno di isolamento.
Racconta che la repressione dello sciopero da parte dei carcerieri non era cosa di poco conto: “I sionisti non ci avevano lasciato nulla se non l’acqua, eravamo riusciti a nascondere il sale in alcuni interstizi dei letti, ma sono arrivati con l’acqua e lo hanno sciolto tutto. Ci avevano sequestrato i vestiti pesanti, e questo era problematico perchè durante lo sciopero della fame si sente più freddo del solito. Durante lo sciopero continuavano a trasferirci da una cella all’altra, da una prigione all’altra. Tre volte al giorno i soldati entravano e perquisivano le celle da cima a fondo, lasciando tutti i notri beni personali in centro alla stanza. Così noi, già debilitati dal digiuno, tre volte al giorno dovevamo raccogliere le nostre cose e rimetterle a posto. Ci hanno privato delle bottiglie, così quando dovevamo bere potevamo farlo solo andando tutti allo stesso rubinetto. Continuavano a raccontarci che nelle altre prigioni diversi compagni avevano mollato lo sciopero, ma sapevamo che non era vero.”
Gli ho domandato come avesse saputo che sarebbe stato liberato. Ha spiegato che si trovava in isolamento da qualche giorno come punizione perchè stava scioperando, e quindi non sapeva nulla dello scambio. “Sono uscito dall’isolamento e mi hanno detto che sarei stato liberato l’indomani. Non ci credevo, ero shockato, perchè in cella con me c’erano persone che erano dentro da più tempo e che avrebbero avuto la priorità. C’erano li con me persone che erano dentro da 27 anni e non erano state incluse nell’accordo.” Continua raccontando l’atteggiamento dei sionisti nei loro confronti alla luce di questo scambio. “I nomi di chi era incluso nell’accordo non erano chiari. I carcerieri si divertivano a giocare con i nostri nervi: un giorno arrivavano dicendo che eravamo liberi, ed il giorno dopo arrivavano dicendo che saremmo rimasti dentro. Non ho avuto la certezza di essere rilasciato fino a 10 minuti prima, quando sono venuti a prendermi. Anche quando venivano a prendere le persone per liberarle si divertivano a non farci sapere nulla: passavano in una cella, chiamavano uno e dicevano “vieni con noi”, senza dire dove lo portavano, poi tornavano, chiamavano un altro e dicevano “vieni con noi”. Fino all’ultimo momento non era chiaro quali nomi fossero inclusi nella lista.”
Loay, originario di Gerusalemme con altri 162 originari della stessa città o della West Bank, è stato deportato a Gaza. Sua madre e qualche fratello sono riusciti a venirlo a trovare perchè, proveniendo da Gerusalemme, hanno potuto attraversare il confine tra l’entità sionista e l’Egitto. Altre persone deportate dalla west bank non possono nemmeno essere visitate dalla famiglia. Spiega Loay: “Tra un anno 18 di noi potranno tornare nella west bank. Tra due anni altri 18. 55 potranno tornare a casa tra 10 anni e tutti gli altri, tra cui me, non hanno una data per il ritorno a casa, forse non potremo tornare mai.”
Loay è entusiasta del fatto che 1027 prigionieri siano stati liberati: “Questo scambio è stato un’occasione fantastica. Quando sei in carcere anche solo 5 compagni liberati significano tantissimo per te. Immagina la gioia nel sapere che 1027 verranno rilasciati! Questa è una vittoria anche per chi sta dentro, i miei compagni ancora in carcere sono riusciti a comunicarmi che sono felici che io sia fuori.” e poi lancia un appello: “Chiedo agli uomini e donne che stanno fuori dal carcere di pensare alla questione dei prigionieri come una questione unitaria, lontana dalla logiche di partito. Chiedo, in quanto essere umano, di fare appello alla vostra umanità perchè facciate pressione per la questione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.”
Pubblicato da Silvia Todeschini a 11:00 AM
http://libera-palestina.blogspot.com/2011/10/racconto-di-un-prigioniero-deportato.html
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