15 aprile 2017
Il Sole 24 Ore, 15/4/2017
Quando fu criticato perché la telefonata con Tsai Ing-wen, la presidente di Taiwan, metteva in discussione il principio della “One China policy”, un pilastro della politica estera americana in Estremo Oriente, la reazione di Donald Trump fu umanamente comprensibile. Tutti sanno che esistono due Cine, quella di Pechino e dell’isola di Formosa, obiettò il neo presidente americano.
Quello che l’imprenditore edile, il protagonista di reality di successo, il nazionalista e il qualunquista non poteva sapere, era che queste finzioni servono per garantire la pace e, nel caso specifico, per assicurare la sopravvivenza di Taiwan. La bugia sull’esistenza di una sola Cina, si chiama diplomazia e il suo compito è inventare compromessi per evitare conflitti.
Ciò che un presidente con un vocabolario limitato non sa (Mark Twain sosteneva che la qualità di un uomo si definisce dalla quantità di aggettivi che usa), e che l’internazionale populista finge d’ignorare, è che un compromesso non è inciucio: è il punto più alto della politica. E’ inclusione, rispetto dell’altro, in politica estera strumento di pace.
Il problema si ripropone con l’ ”invincibile armata” americana che si sta avvicinando alle coste coreane. Chiamandola così, Trump probabilmente non sapeva che quel nome non porta buono: ricorda soprattutto la sconfitta spagnola del 1588 al largo di Calais, che impedì a Filippo II d’invadere l’Inghilterra. Kim Jong-un ha solo 33 anni ma è un osso più duro di quanto sia stato Francis Drake per gli spagnoli o siano oggi Bashar Assad e l’Isis per gli americani. Come reazione a Moab, la superbomba sganciata in Afghanistan, qualche lupo solitario islamista forse tenterà di colpire Millwaukee o Saint Louis. Ma se gli americani lanciano i missili sui siti nucleari di Pyongyang, di sicuro Kim colpirà con i suoi Seoul, forse sparando nucleare sporco, Sarin e quanto di peggio ci sia nel suo arsenale.
La pericolosità del giovane satrapo della Corea del Nord è estremamente alta ed è stata ulteriormente aggravata dal bombardamento americano sulla base militare siriana e l’uso di Moab sulla provincia afghana di Jalalabad. Precedenti sui quali un dittatore tende a riflettere in modo sbagliato. Occorre evidentemente fare qualcosa contro un regime così instabile nei suoi comportamenti, i cui leader minacciano la pace regionale e mondiale ormai da tre generazioni. Tuttavia non è detto che sia la cosa giusta sfidarlo sul suo terreno militare, sapendo che alla fine l’America vincerà ma ignorando a quale prezzo. A volte il costo equivale a una sconfitta.
Forse Donald Trump deve ancora imparare che nel mestiere di presidente degli Stati Uniti fra il dire e il fare c’è una relazione molto più stretta di quanto non accada nella trattativa per acquisire un lotto edificabile nel centro di Seoul. Per il presidente della prima superpotenza mondiale è difficile promettere l’Armageddon e poi far tornare indietro la flotta senza avere sparato un solo colpo.
La Cina che per “concetto nazionale” stabilito dal partito, ha deciso che sarà una superpotenza solo nel 2049, in occasione del centesimo anniversario della Repubblica Popolare, è l’alleato migliore dell’America per rendere meno rischiosa la missione dell’armada di Trump. E’ difficile che un compromesso diplomatico possa sradicare la minaccia del regime della coreano del Nord. Ma farebbe guadagnare tempo utile per una soluzione definitiva. Probabilmente Xi Jinping sta capendo che per la stabilità della regione nella quale è protagonista, per la Cina sia più rischiosa una Corea del Nord incontrollabile che gli americani alle frontiere, in una Corea riunificata.

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