Tutto sotto controllo. Quando scoppierà la guerra?

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di Paola Caridi

E’ inutile nasconderselo. A Gerusalemme si parla di guerra. Di un possibile attacco aereo israeliano contro i siti nucleari iraniani. Lo si dà per molto probabile. Possibile. Come se – tanto per rimanere sugli stringenti problemi climatici italiani – quella piccola palla di neve fosse ormai una slavina che non si può più arginare. Molti di noi, anche i più ottimisti, non si chiedono più “se” ci sarà l’attacco, ma cominciano a riflettere sul “quando”. In primavera, com’è già successo con l’Iraq. Quando il meteo favorisce i raid ad alta quota, senza il brutto tempo, i venti, le nuvole che potrebbero rendere ancor più imprecisa la mira. Aprile, maggio, chissà.

Confesso che fa una certa impressione conversare sulla guerra. Non è una cosa che non mi, ci riguarda. Lo si vede dalle parole che escono così, timide, sui “piani di evacuazione”, e che oggi sono arrivate anche su Haaretz, con l’indiscrezione che le ambasciate cominciano a pensare ai piani di evacuazione delle famiglie dei diplomatici e dei connazionali. Bisogna programmare, come con la neve e le calamità atmosferiche.

Mi era già successo quando ero al Cairo, nel 2002-2003, e si parlava di un attacco americano all’Iraq di Saddam Hussein. Anche allora, il copione fu simile. Molti articoli sui giornali, indiscrezioni quotidiane, analisi sul “quando” dell’attacco, mentre gli expat cominciavano a chiedersi cosa sarebbe successo nei paesi vicini all’Iraq. Egitto compreso. Che si fa? Si va via? Si fanno le scorte di acqua e cibo, e non ci muove da casa? Qui, semmai, si parla sulla stampa (e non solo) della distribuzione di maschere antigas e dei rifugi da rimettere in funzione. Un esempio, oggi, è Sever Plocker, uno degli opinionisti più seri in Israele, che dell’ineluttabilità della guerra parla su Yediot Ahronot, il più diffuso quotidiano del paese.

Le scuole di pensiero, tra gli analisti da questa parte e dall’altra parte dell’Atlantico, sono di due tipi. Si alza la tensione perché si possa arrivare a un accordo, oppure si inonda di indiscrezioni la stampa locale e internazionale per preparare l’opinione pubblica. Da questa parte, è la seconda scuola di pensiero a farla da padrona. Se ne parla, perché quando poi l’attacco ci sarà, la popolazione sia preparata al peggio. Senza porre molta attenzione al fatto che Israele si trova in Medio Oriente, e che le reazioni potrebbero essere catastrofiche.
Tutto sotto controllo, questo è invece il messaggio che deve passare. Possiamo superare le reazioni, perché siamo fortissimi sulla tecnologia, la sicurezza, gli strumenti militari. Di politica regionale, a dire il vero, non si parla quasi per nulla. Le analisi sono (quasi) tutte sull’opzione militare, come se fuori dai confusi confini dell’Israele reale ci fossero i leones. Non popoli, non rivoluzioni, non regimi più o meno instabili.

E allora, se così è, l’unica variabile è oggi la politica dell’amministrazione americana, dove ci sono segnali che non tutti siano d’accordo su di un attacco militare. Lo dimostrano, da mesi, le parole del segretario alla difesa Leon Panetta. E rafforzano questa ipotesi le pressioni, da parte dei think tank di Washington, perché l’amministrazione Obama si prenda in carico un’offensiva diplomatica difficile, ma necessaria.

Perché tutti sanno che un attacco israeliano all’Iran, seppur solitario e senza l’appoggio militare di altri paesi, ci coinvolgerebbe tutti. A cominciare dall’Europa, fragile – ad esempio – nei suoi approvvigionamenti di energia. Dal grande pianeta Russia (e Putin, sulla questione siriana, è deciso a mantenere le sue posizioni…) all’Iran, da cui arrivano segnali molto pericolosi riguardo a un possibile embargo al contrario, con la maggioranza dei parlamentari di Teheran che chiedono uno stop alle esportazioni di petrolio verso l’Unione Europea prima che entrino in funzione le sanzioni. Il risultato è chiaro: non solo un aumento dei prezzi del carburante, ma problemi serissimi per tutti i comparti produttivi. Com’è già evidente, in questi giorni, dopo una ‘semplice’ calamità atmosferica.

E allora? C’è ancora spazio per il negoziato, per la diplomazia, per la mediazione? A prima vista no. Ma è proprio in momenti come questo che c’è spazio per la mediazione, perché altrimenti la mediazione non avrebbe necessità di esistere. Né i diplomatici, né i negoziatori. Regola aurea, che – però – ho l’impressione sia spesso dimenticata. Soprattutto presso questi lidi.

Da www.invisiblearabs.com

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