admin | August 14th, 2013 – 10:02 pm
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Troppe parole. Ci sono troppe parole sull’Egitto. Troppe parole e poche immagini. Le parole dei tanti che usano termini politologici (o politici, piuttosto?) svuotandoli del loro significato primario. Rivoluzione, colpo di stato, regime, terrorismo… Troppe parole sbagliate, che nascondono altre parole. Per esempio: Massacro. Abuso dei diritti umani. Repressione. Stravolgimento di strumenti istituzionali come i tribunali, la macchina della giustizia, il potere esecutivo. E, soprattutto, un termine che descrive ciò che è cominciato oggi al Cairo, con la strage a opera di militari, forze di sicurezza, polizia e baltageyya nello ‘sgombero’ (sgombero? Ho sentito persino questa parola per spiegare un massacro in piena regola) di Rabaa El Adaweya: guerra civile.
Quello che molti di noi (analisti, amanti dell’Egitto) temevano ha avuto inizio oggi. La strage del Cairo. Le chiese cristiane bruciate in varie parti del Paese. La trama strappata della società egiziana. Il ‘fratello contro fratello’. E sopra a tutto, il regime che tenta di ri-prendere il controllo di un Egitto che non è più quello del 2010.
Che nessuno, però, interpreti questa come una evenienza della storia in cui l’uomo non ha parte alcuna. Questa è una tragedia annunciata, stra-annunciata che ha responsabili, esecutori, mandanti, vittime. Questa è la morte di una rivoluzione inclusiva che non ha, nel 30 giugno, il suo secondo atto. Proprio perché il 30 giugno del 2013 non è stata una rivoluzione inclusiva. Piuttosto, semmai, il primo atto di uno scontro tra forze, fazioni e poteri che non volevano con-dividere il futuro dell’Egitto.
I vizi di origine della primavera del 2011, anzitutto l’incapacità di togliere ai militari il potere di gestire e indirizzare la rivoluzione di Tahrir, sono alla base della tragedia alla quale stiamo assistendo. Con un dolore che blocca l’esofago, sale alla gola e contrae i muscoli. L’Egitto esplode perché parte dei rivoluzionari ha creduto che facendo un patto con le forze armate non ne sarebbe stato fagocitato. L’Egitto ha cominciato a esplodere nel momento nel quale ha applaudito ai caccia dell’aviazione egiziana in parata sopra il cielo di Tahrir, nell’esaltazione di un popolo che si è messo (ancora una volta) nelle mani del sistema repubblicano nato con Gamal Abdel Nasser pensando di liberare se stesso da un’altra occupazione del potere. L’occupazione compiuta dalla leadership conservatrice dei Fratelli Musulmani.
L’esclusione è il peccato originale della transizione alla democrazia, nell’Egitto degli ultimi due anni. E a pagare sono anche molti di quelli che erano a Tahrir all’inizio del febbraio 2011, quando i baltageyya tentarono di riconquistare la piazza e furono respinti (qualcuno se lo ricorda?) anche da quelli che noi chiameremmo il servizio d’ordine dell’Ikhwan. Sono certa, ma non ne ho le prove, che tra le centinaia di morti e le migliaia di feriti islamisti vi siano anche giovani e meno giovani che erano a Tahrir, nel 2011.
Perché di Tahrir noi vogliamo ricordare solo la parte che comprendiamo meglio: la sinistra, i liberal, i musulmani e i copti moderati. Non ricordiamo gli ospedali da campo organizzati dai medici dei fratelli musulmani né la prima linea nella difesa della piazza.
Questa rivoluzione non è più tale, oggi. O forse è quel tipo di rivoluzione che prevede il sangue, tanto sangue: la rivoluzione sanguinosa di cui criticava l’assenza un giornalista francese a un fine intellettuale egiziano, due anni fa, in una conversazione tra pochi intimi. Perché, diceva, ogni rivoluzione passa attraverso un lavacro di sangue. Credevo non avesse ragione, e che la sua critica fosse originata dal suo essere francese, cresciuto nel mito di un’altra rivoluzione. E ora mi devo ricredere.
Ci sarà tempo, ahimè, per analisi più raffinate dal punto di vista politologico. Oggi è però il tempo di piangere i morti di un massacro annunciato, stupido e feroce. E con il massacro dobbiamo piangere la fine dell’Egitto che molti di noi hanno conosciuto e amato. Con una passione profonda, quasi viscerale. L’Egitto della polvere delle strade, delle ciabatte del bawab, delle jacarande, dei sorrisi, degli enormi ficus lungo marciapiedi sbrecciati, sotto balconi ingrigiti. Tutto meno che una descrizione orientalistica. È l’Egitto adorato, amato, che ora piango, con dolore. Ed è per questo dolore che ho taciuto nelle ultime settimane, che rimarrò in silenzio (o quasi) nei prossimi giorni. Non sopporto l’idea che l’Egitto sia travolto da una guerra civile per l’insipienza di tanti, dentro il paese, e per l’influenza miope e deleteria dei tanti apprendisti stregoni che fuori dai confini egiziani hanno fatto del loro meglio per evitare una ricomposizione del quadro politico e, prima ancora, sociale.
Chi ha camminato per le strade del Cairo, conosce questo dolore.
Umm al Dunya, prego per te, ascoltando Abdel Halim Hafez.
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