Una protesta sionista dimenticando i loro vicini palestinesi

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Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Di Gideon Levy

Ancora una volta non sono andato in Piazza Habima o in Viale Kaplan per partecipare alle manifestazioni. Le gambe si rifiutavano di portarmi lì e il cuore mi ha impedito di prendere parte a una protesta ampiamente giustificata, ma che non è la mia protesta.

Una manifestazione ricoperta da un mare di bandiere biancoazzurre, quasi a mettersi alla prova e a proteggere i suoi partecipanti, mentre le bandiere degli altri popoli che vivono in questa terra sono proibite o raccolte in uno stretto ghetto su un cumulo di terra ai margini della Piazza, come nella manifestazione precedente, non può essere la mia manifestazione. Una manifestazione tutta ebraica e uninazionale in uno Stato chiaramente binazionale non può essere una manifestazione per chi cerca l’uguaglianza o la giustizia, che sono tra le parole chiave di questa protesta ma rimangono vuote di significato.

Vuoto è lo slogan di “libertà, uguaglianza e qualità del governo” coniato dagli organizzatori di una manifestazione a Tel Aviv; non meno vuoto è lo slogan di “lotta per la democrazia” di quelli di un’altra manifestazione. Non c’è e non ci sarà mai “libertà, uguaglianza e governo di qualità” in uno Stato di Apartheid, né c’è “lotta per la democrazia” quando si è indifferenti all’Apartheid.

Alcuni degli ebrei di questo Paese sono ora indignati di fronte a una concreta minaccia ai loro diritti e alla loro libertà. È positivo che siano stati spinti all’azione civile, ma i loro diritti e la loro libertà, anche dopo che saranno stati ridotti, rimarranno quelli dei privilegiati detentori della supremazia ebraica. Coloro che vi acconsentono, a parole o in silenzio, invocano invano la democrazia. Il silenzio è silenzio sull’Apartheid. La partecipazione a queste manifestazioni di ipocrisia e doppi criteri è inaccettabile.

Il mare di bandiere israeliane in queste manifestazioni è inteso come scudo di fronte alla messa in discussione della destra della lealtà e del patriottismo del campo. Siamo sionisti, quindi siamo leali, dicono i manifestanti. I palestinesi e gli arabi israeliani possono aspettare che risolviamo le cose tra di noi. È vietato mischiare le cose, come se fosse possibile non mischiarle. Ancora una volta il centro e la sinistra inciampano davanti alle accuse della destra, borbottando e chiedendo scusa; la purezza della bandiera li confondeva molto più delle accuse.

Ancora una volta, si dimostra che questo campo esclude i palestinesi e la loro bandiera non meno della destra. Come si può partecipare a una simile manifestazione? Non c’è e non può esserci una manifestazione sulla democrazia e l’uguaglianza, sulla libertà e persino sulla qualità del governo, in un regime di Apartheid in uno Stato di Apartheid, ignorando l’esistenza dell’Apartheid.

La bandiera è stata scelta come simbolo perché è una protesta sionista, ma non può essere una manifestazione sionista per la democrazia e anche una manifestazione giusta. Un’ideologia che incide sulla sua bandiera la supremazia di un popolo su un altro non può predicare la giustizia prima di aver cambiato le fondamenta della sua ideologia. La Stella di David sta affondando, come ha dimostrato in modo così straziante l’illustrazione di copertina della rivista ebraica Haaretz di venerdì, ma il suo affondamento è inevitabile fintanto che la bandiera di Israele è la bandiera di una delle due nazioni che la rivendicano.

Il sangue palestinese è stato versato come acqua negli ultimi giorni. Non passa giorno senza che vengano uccisi innocenti: un insegnante di ginnastica che ha cercato di soccorrere un ferito nel suo cortile; due padri, in due luoghi diversi, che hanno cercato di proteggere i loro figli, e il quattordicenne figlio di rifugiati, tutto in una settimana. Come può una protesta ignorare questo, come se non stesse accadendo, come se il sangue fosse acqua e l’acqua fosse pioggia benedetta, come se non avesse nulla a che fare con il volto del regime?

Immaginare se fossero gli ebrei ad essere attaccati ogni giorno o due? La protesta li avrebbe ignorati? L’occupazione è più lontana che mai dal finire; è diventata un insetto fastidioso che deve essere schiacciato. Chiunque lo menzioni è un piantagrane che deve essere allontanato; anche la sinistra non vuole più sentirne parlare.

“Fermate il colpo di Stato”, citano gli annunci, con un impeto che sembra preso dalla Rivoluzione Francese. Ma non c’è rivoluzione in uno Stato di Apartheid, se continua ad essere uno Stato di Apartheid. Anche se tutte le richieste dei manifestanti venissero soddisfatte, la Corte Suprema valorizzata, il Procuratore Generale osannato e il potere esecutivo restituito alla sua legittima statura, Israele rimarrà uno Stato di Apartheid. Allora qual è il senso di questa protesta? Per permetterci di gioire ancora una volta di essere “l’unica democrazia in Medio Oriente”.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

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