Via gli arabi da Silwan!

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Siete mai stati nel quartiere arabo di Silwan, proprio in centro a Gerusalemme, a pochi passi dal muro del Pianto? Fate presto ad andarci perchè giorno dopo giorno la Municipalità e i coloni stanno facendo piazza pulita di migliaia di case palestinesi e di una storia millenaria…

l’archeologia politica per conquistare Gerusalemme

Giovedì scorso c’era un’ondata di calura, ma lungo il viottolo acciottolato che sale per il centro di Silwan – La Città di Davide – si stava meglio. Forse era il fresco della brezza, oppure delle case in pietra, ad allegerire l’aria; o forse era l’ampio panorama delle montagne intorno a Gerusalemme. Eravamo in tre – Ilan il regista, Micheal il cameramen ed io, l’intervistatore. Stavamo facendo un documentario sulle palesi discriminazioni istituzionali nei confronti dei palestinesi che risiedono in questo quartiere di Gerusalemme Est. Queste sono accompagnate da una discriminazione che favorisce i coloni ebrei. Questi, per parte loro, non nascondono il desiderio di ebraicizzare il quartiere, facendone scomparire le caratteristiche palestinesi.

Ancora prima che posizionassimo la macchina da presa, sale su dal viottolo un gruppo di ragazze ebree ortodosse. Avranno avuto dagli otto ai dieci anni; chiacchierone belle e compiaciute. Una di loro, avvicinandosi, ha rallentato.”Riprendimi”, ha detto amabilmente. “Cosa ti piacerebbe raccontarci?” le abbiamo domandato. Camminando, ha risposto: ” Voglio dire che Gerusalemme è una città che appartiene a noi, agli ebrei. È veramente vergognoso che vi siano arabi qui. Il Messia verrà solamente quando qui non ci sarà più un arabo in giro.” È andata avanti; le ragazzine hanno ridacchiato, continuando la passeggiata con lei.

Due minuti dopo arriva un giovane robusto; ha un’arma e un walkietalkie, e nessun segno di identificazione indosso. Già prima che aprisse bocca avevo ipotizzato che fosse uno della sicurezza, un dipendente della società privata, diretta dai coloni ma finanziata dal Ministro dell’Edilizia per la bellezza di 40 milioni di shekel all’anno. Questa società è diventata da tempo una forza di polizia privata, che pattuglia tutto il quartiere e terrorizza, senza alcun motivo legale, i residenti palestinesi. Un comitato istituito dal Ministro dell’Edilizia aveva deciso che questo accordo dovesse cessare e che la sicurezza degli abitanti (sia ebrei, sia palestinesi) dovesse essere garantita dalle forze di polizia israeliana, come succede per il resto dei cittadini di Israele. Il Governo ha recepito la raccomandazione del comitato nel giugno del 2006, ma sei mesi dopo ha cambiato idea: i coloni avevano esercitato pressioni, e qui continua ad operare la polizia privata.

“Cosa fate qui”, ha chiesto il giovane. “Cosa fai qui tu”, ho ribattuto. “Sono della sicurezza”, ha risposto, “ditemi cosa state facendo qui”. “Stiamo qui in strada”, gli ho spiegato. “Ditemi cosa fate qui”, irato. “Non ti riguarda”, gli ho detto. “Come ti chiami” mi ha chiesto. ” Come ti chiami tu”, gli ho ribattuto. “Non importa”, ha risposto;”sono della sicurezza”. “Allora non importa nemmeno come mi chiamo io”, ho risposto. Arrabbiato, parla al walkie talkie. Se fossimo stati palestinesi saremmo già andati via. È il regolamento non scritto. Ma noi eravamo israeliani, parlavamo ebraico e costituivamo un problema. I suoi dirigenti gli hanno a quanto pare spiegato che non ci poteva fare nulla,che quella era una zona pubblica. Il “poliziotto” ha preso posizione accanto a noi, con la sua arma, e per tutto il tempo in cui siamo stati lì non ci ha lasciati soli.

Abbiamo cambiato posto. Due tre minuti più tardi, su per il viottolo sono salite due giovani donne. Avranno avuto diciassette o diciott’anni. Laiche, evidentemente non residenti lì. Una si è piazzata davanti alla macchina da presa. “Fammi una foto”, ha detto in tono adulatorio. “Vuoi essere intervistata”, le abbiamo chiesto.”Si”, ha risposto. Dice che abita a Gan Yavneh e che è venuta a vedere Gerusalemme, la Città di Davide. “Perchè proprio la Città di Davide”, abbiamo domandato. “Perché è qui che Davide è stato re; questo è un luogo molto importante per il popolo ebraico. È veramente vergognoso che vi siano arabi qui. Ma presto, a Dio piacendo, moriranno tutti, e Gerusalemme sarà solamente nostra.”. Ha proseguito per la sua strada.

Passano due minuti. Una famiglia di ortodossi sale su per il viottolo. Il marito, vestito di nero, domanda a Ilan, il regista: “Senti, in questo quartiere abitano ebrei e arabi?” “Sia palestinesi, sia ebrei” ha risposto Ilan, “ma la maggioranza è palestinese”. “Questo è temporaneo”, ha detto l’ortodosso, arginando le preoccupazioni; “presto non ci rimarranno più arabi, qui”.

Guardo Ilan e Michael. Era passato appena un quarto d’ora da quando eravamo arrivati; non avevamo intervistato nessuno sull’atteggiamento verso gli arabi, sul conflitto israelo-palestinese o sul futuro di Gerusalemme. Eravamo solo stati in piedi, come dei pali, in mezzo alla strada. L’odio ci si è riversato addosso, come un fiume nell’oceano.

Liberamente, spontaneamente. “Senti”, ho chiesto ad Ilan. “Incontreremo qualcuno che ci dica qualcosa di positivo, di umano, qualcosa di buono sull’umanità?” “Lascia perdere l’umanità” ha risposto Ilan. “Trovaci qualcuno che commenti:”che aria buona che c’è qui a Gerusalemme”.

Silwan. Ricordatevi il nome.

Meron Rapoport, 24 agosto 2009
Traduzione dall’inglese: Carlo Tagliacozzo e Paola Canarutto

 

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