Vivere e morire a Ramallah a 75 anni dalla Nakba

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Articolo pubblicato originariamente su Left

Di Elena Colonna

Jawad e Thafer Rimawi fanno parte dei 231 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022. Con già 123 palestinesi uccisi al 10 maggio, il 2023 si preannuncia ancora peggio. Il 15 maggio nel giorno in cui si commemora la Nakba (la cacciata nel 1948 di 700mila palestinesi dalle loro case e dalle loro città e che ancora li costringe all’esilio) pubblichiamo la toccante testimonianza di Ru’a Rimawi che denuncia l’uccisione a freddo dei suoi fratelli e l’oppressione subita ogni giorno dal popolo palestinese. L’ha raccolta per Left la giornalista e ricercatrice Elena Colonna.

Jawad e Thafer Rimawi fanno parte dei 231 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022. Con già 123 palestinesi uccisi al 10 maggio, il 2023 si preannuncia ancora peggio. Il 15 maggio nel giorno in cui si commemora la Nakba (la cacciata nel 1948 di 700mila palestinesi dalle loro case e dalle loro città e che ancora li costringe all’esilio) pubblichiamo la toccante testimonianza di Ru’a Rimawi che denuncia l’uccisione a freddo dei suoi fratelli e l’oppressione subita ogni giorno dal popolo palestinese. L’ha raccolta per Left la giornalista e ricercatrice Elena Colonna. Foto di Maria Colonna  

Ru’a è seduta sul divano grigio cenere nel salotto della sua casa a Beit Rima, villaggio a di nord di Ramallah, in Cisgiordania. La calda luce della giornata primaverile riempie la stanza, illuminando le due grandi fotografie che campeggiano sul muro alle spalle della ragazza. «In Palestina senti parlare di persone che vengono uccise ogni giorno, tanto da farci l’abitudine, ma non ti aspetteresti mai che siano i tuoi due fratelli a essere uccisi», dice Ru’a.

Lo scorso 29 novembre, i due fratelli minori di Ru’a – Jawad e Thafer Rimawi, di appena 22 e 19 anni – sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante un’incursione al villaggio di Kafr Ein, a pochi chilometri da Beit Rima. La loro colpa, aver lanciato dei sassi contro i soldati che attaccavano il villaggio.

«Verso le 5 del mattino, sono stata svegliata dalle urla di mia madre», racconta Ru’a. Dopo essersi precipitati all’ospedale della vicina città di Salfit, la ragazza e i suoi genitori hanno appreso che a Thafer erano stati sparati tre colpi al petto, e Jawad era stato colpito da un proiettile esplosivo e presentava una grave emorragia interna. Mentre i suoi genitori sono rimasti con Jawad, che veniva operato d’urgenza, Ru’a è salita in ambulanza con Thafer, che doveva essere trasferito a Ramallah dove c’era un chirurgo toracico in grado di operarlo.

In ambulanza, mentre Thafer era in bilico tra la vita e la morte, la preoccupazione era di raggiungere l’ospedale senza incorrere in nessun posto di blocco israeliano. A un posto di blocco, infatti, i soldati avrebbero fermato l’ambulanza e interrogato il personale medico, rischiando di far morire Thafer nell’attesa. «Mi sono ritrovata a guardare Thafer e a chiedermi come fosse possibile che mentre mio fratello stava morendo dissanguato, i medici stessero discutendo dei posti di blocco», dice Ru’a, con la voce spezzata.

foto di Maria Colonna

Appena raggiunto l’ospedale, il cuore di Thafer si è fermato. Mentre i medici effettuavano la rianimazione cardiopolmonare, Ru’a ha ricevuto una telefonata dalla madre che le comunicava che Jawad era morto. «Mia madre ha detto: “Ti prego, dimmi che Thafer è vivo, non posso perderli entrambi” e in quel momento ho capito che li avevo persi entrambi e per sempre». Ru’a tace qualche secondo. «Mi sento bloccata a quel giorno: il sole sorge, le persone vanno al lavoro, io devo svegliarmi, ma non mi sento più viva».

Eventi come questi, dice Ru’a, sono ciò che i media chiamano ‘scontri’ tra israeliani e palestinesi: giovani uccisi a sangue freddo per aver lanciato sassi contro i soldati che attaccano le loro case. «Cosa possono fare dei sassi contro i fucili, le bombe, i carri armati, e i soldati armati fino ai denti di uno degli eserciti più forti al mondo? Come può il fatto di lanciare una pietra giustificare lo sparare tre proiettili nel petto di un diciannovenne?» Ru’a aggiunge che i proiettili esplosivi, come quello che è stato sparato a suo fratello Jawad causandogli lacerazioni interne, sono proibiti dal diritto internazionale. «Non c’era modo per nessuno dei due di sopravvivere: è stata un’esecuzione a sangue freddo».

La ragazza spiega inoltre che non c’era un motivo apparente dietro all’incursione a Kafr Ein: non c’è stato nessun arresto, e dopo aver sparato a Jawad e Thafer i soldati sono ripartiti, lasciando i due ragazzi a terra sanguinanti. «Se qualcuno ci vede un motivo, me lo dica» dice Ru’a, «a parte ricordarci che viviamo sotto occupazione, e che loro possono fare quello che vogliono – anche ucciderci senza nessuna conseguenza». Ru’a ci spiega infatti che non si sa chi abbia ucciso i suoi fratelli, e che questa persona non subirà alcun tipo di condanna: uccidere palestinesi, dice, è solo parte del lavoro di un soldato israeliano.

foto di Maria Colonna

Jawad e Thafer fanno parte dei 231 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano in Cisgiordania e Striscia di Gaza nel 2022, in quello che è stato l’anno con più uccisioni dal 2005. Con già 123 palestinesi uccisi al 10 maggio, il 2023 si preannuncia ancora peggio. «La differenza tra il numero di palestinesi uccisi e quello di israeliani uccisi (29 nel 20220 ndr) è enorme: non si tratta di uno scontro tra forze pari, che si attaccano con uguale violenza, ma di un’occupazione» dice Ru’a.

L’occupazione per i palestinesi è una violenza quotidiana: ogni giorno i palestinesi devono aspettare ore ai posti di blocco, subire retate, violenze, insulti e umiliazioni, sapendo di poter essere uccisi o perdere i propri cari da un momento all’altro. Non c’è palestinese che passi un giorno della propria vita senza che qualcosa gli ricordi di vivere sotto un’occupazione militare. «Come ci si può aspettare che reagisca qualsiasi essere umano in queste circostanze? Perché viene sempre incolpata la reazione palestinese, e non le azioni israeliane che la causano?» si chiede Ru’a, «difendersi e difendere i propri cari è una reazione umana, e l’unico modo che i palestinesi hanno per farlo è lanciare sassi contro un esercito». Ma quando si parla di Palestina, quella che è una reazione umana viene definita atto di terrorismo.
«Com’è possibile che lanciare sassi sia considerato un atto terroristico, mentre attaccare un villaggio con i carri armati no? Come ha fatto il mondo a convincersi che le retate, le violenze e le uccisioni perpetrate da israeliani possano essere classificate come ‘autodifesa’, mentre lanciare sassi è terrorismo, e una ragione sufficiente per venire uccisi?», continua Ru’a, «Si punta il dito sempre contro le azioni violente dei palestinesi, senza vedere le nostre azioni come reazioni generate dall’oppressione e alla violenza che subiamo ogni giorno da anni. Dall’altra parte, viene sempre trovata una giustificazione per le violenze israeliane».
A chi sostiene che i palestinesi non vogliono e non cercano la pace, Ru’a quindi risponde: «Come potrebbe qualsiasi essere umano sano di mente non voler vivere in pace?» Aggiunge però che la pace proposta dagli israeliani è che i palestinesi accettino di essere uccisi e perdere i propri cari in silenzio. «È dal 1948 che cerchiamo di negoziare una pace, ma l’unica cosa che otteniamo e che ci siano sempre più uccisioni, sempre più insediamenti, sempre più posti di blocco».
«L’occupazione deve finire, le uccisioni devono smettere: nessuna sorella dovrebbe vivere questo dolore, nessuna madre dovrebbe perdere i suoi figli in questo modo. Il mondo non può permettere che persone innocenti continuino a morire e perdere i loro affetti».

Nonostante il dolore che le provoca parlare della morte dei fratelli, Ru’a sente la responsabilità di farlo, perché «se non ne parliamo noi, chi ne parlerà mai?». Per questo ha scritto un articolo su quello che è successo. Ru’a ha però trovato molte difficoltà nel pubblicare il suo pezzo, poi accettato da Al Jazeera: molte testate internazionali hanno rifiutato l’articolo di Ru’a proprio per la menzione al fatto che i suoi fratelli avevano lanciato dei sassi, ovvero un atto terroristico.
«A una sorella dovrebbe essere concesso il tempo di affrontare il lutto: ma in quanto palestinese devi convincere il mondo che l’uccisione dei tuoi fratelli è stata ingiusta, che non hanno fatto nulla per meritarla, che i loro assassini devono essere chiamati a renderne conto, e che la loro morte è una perdita per il mondo intero».
Jawad aveva studiato amministrazione aziendale all’università Birzeit, una delle migliori università palestinesi, e lavorava in banca. Thafer si era da poco diplomato dalla scuola superiore con uno dei punteggi più alti di tutta la Palestina, e aveva iniziato a studiare ingegneria informatica all’università. «Erano pieni di sogni e ambizioni, erano compassionevoli e affidabili, erano i migliori fratelli che si potessero avere, degli amici fantastici. Persone come loro non avrebbero mai dovuto essere uccise».
«So che parlare di Thafer e Jawad non li riporterà in vita», conclude Ru’a, con le lacrime agli occhi, «spero però che raccontare di loro farà capire al mondo la realtà e la brutalità dell’occupazione israeliana, e riuscirà a prevenire altre uccisioni: la mia storia, la storia di Jawad e di Thafer, è la storia di ogni palestinese, tutti i palestinesi conoscono qualcuno che è stato ucciso».

«Se la mia storia riuscirà anche solo a colpire una persona, a far capire a una sola persona la sofferenza palestinese, quello sarebbe abbastanza».

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