admin | February 8th, 2011 – 11:54 am
Non sono stati solo i ragazzi di Tahrir a commuoversi per le lacrime di Wael Ghonim, prostrato da 12 giorni di detenzione, sequestrato, rapito, messo in galera dai servizi di sicurezza egiziani. A piangere con lui è stata una buona fetta della popolazione egiziana, quella che può sintonizzarsi su Dream, una delle tv più viste, gettonate del paese. Wael Ghonim è uno dei manager di Google nel Medio Oriente, ha una buona posizione, lavora negli Emirati Arabi Uniti, ma è soprattutto un mago del computer e della rete. Ha gestito la pagina “Siamo tutti Khaled Said”, in memoria di quel ragazzo di Alessandria dal viso pulito, ammazzato di botte dalla polizia nel giugno del 2010. E’ un attivista del web, è uno di quella generazione Facebook che, ha spiegato ieri sera, lungi dall’essere una generazione virtuale è scesa in strada, e ha fatto la rivoluzione. Wael Ghonim è stato liberato da una campagna costante, diffusa, senza un attimo di pausa, andata in onda – appunto – sul web, e sostenuta proprio da Google, che non ha abbandonato un suo uomo. Anzi, ha messo a disposizione dei ragazzi di Tahrir i suoi mezzi quando il regime di Mubarak aveva deciso di chiudere il paese al mondo, e bloccare internet.
Non ha visto niente, della rivoluzione, Wael Ghonim. Separato dal mondo, e soprattutto da quel paese, l’Egitto, nel quale era tornato con una scusa, per poter partecipare alla rivolta. Rapito il 28 gennaio, ha perso tutto: le grandi manifestazioni pacifiche, gli scontri, l’occupazione di Piazza Tahrir. “Non trattatemi con un eroe. Io ho dormito per 12 giorni. Gli eroi sono gli altri, quelli che erano per strada. Quelli che sono morti”. L’antieroe Wael piange di fronte alla sua intervistatrice, una delle più conosciute in Egitto, Mona el Shazly, quella delle interviste con le celebrità, rais Mubarak compreso. Ora la celebrità è un ragazzo di trent’anni, viso impallidito dalla prigionia e dalla tensione, maglioncino di lana, capelli un po’ scarmigliati. E’ come un fiume in piena, parla, racconta, spiega perché loro, i ragazzi, non hanno fatto niente di male, non sono traditori, amano l’Egitto, l’hanno fatto per il loro paese.
Alla fine, nella più scontata tv del dolore, scorrono le facce dei ragazzi che sono morti davvero, e non virtualmente, nella rivoluzione del 25 gennaio. Sono ragazzi belli, sorridenti, pieni di una vita terminata subito, di colpo, vittime sacrificali. I martiri di Tahrir, come li chiamano. Wael Ghonim piange, non ce la fa a reggere la tensione e il dolore. E quel pianto, invece, è tutto meno che scontato. Ha pianto il paese, con lui. E oggi, a Piazza Tahrir, per quelle lacrime, potrebbe esserci molta gente. Proprio nel giorno in cui si pensava che Piazza Tahrir stesse perdendo consenso verso l’egiziano medio, che vuole tornare alla normalità, al tran tran, al traffico bestiale del Cairo.
Un bambino, qui a Gerusalemme, mi ha spiegato perché i bambini possono giocare nei luoghi che noi considereremmo sacri e chiusi alle risa e al pallone. Perché Dio – quello dei musulmani, in questo caso – dice “date la libertà ai bambini, e i bambini vi daranno la libertà”. Non ci avevo pensato, prima, ma forse questa è anche la ragione per cui i bambini, gli ulad, hanno ricevuto ascolto dai grandi, in queste due settimane.
Non credo che Tahrir abbia trovato il suo leader, in Wael Ghonim. Uno di loro, in un tweet di questa mattina, dice “non siamo mica un gregge, non abbiamo bisogno di un leader”. Idealismo della gioventù? Forse. Ma forse i ragazzi stanno dicendo al loro paese, e a noi che li osserviamo, che non sono una massa di manovra. E che non sarà così facile utilizzarli.
Pioveva, domenica. E così i ragazzi hanno riparato con una bandiera egiziana il papà di NadiaE, musulmano conservatore, malato (la figlia cercava una sedia a rotelle, per poterlo accompagnare a Tahrir), in piazza per assistere alla preghiera dei cristiani per i martiri, i ragazzi morti. Lo stereotipo che ha coperto i ragazzi arabi è fatto di carta velina: NadiaE è una blogger, madre e giornalista (così si definisce), così come un’alpinista. Con tanto di hijab.
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