La risoluzione approvata

Articolo pubblicato originariamente sulla newsletter sul Medio Oriente a cura di Francesca Gnetti

 
Molti mezzi d’informazione internazionali hanno commentato l’astensione degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che il 25 marzo ha consentito l’approvazione di una risoluzione per chiedere una tregua immediata nella Striscia di Gaza, come “il più forte scontro pubblico” tra Washington e il suo alleato Israele da quando è cominciata l’offensiva di Tel Aviv nel territorio palestinese il 7 ottobre.

“Un tabù è stato infranto”, ha scritto Pierre Haski sul sito di Internazionale, ricordando che negli ultimi mesi Washington aveva fatto ricorso al veto per tre volte al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mentre il 22 marzo aveva presentato una proposta per il cessate il fuoco, che però era stata bloccata da un doppio veto di Cina e Russia, che stavolta invece hanno votato a favore.

La risoluzione, approvata con quattordici voti a favore oltre all’astensione degli Stati Uniti, era stata presentata da un gruppo di stati del nord e del sud del mondo. Esige “un cessate il fuoco umanitario immediato per il mese di Ramadan, ovvero per le prossime due settimane, che porti a una tregua duratura” e “il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi” israeliani ancora nelle mani di Hamas, anche se non pone questa richiesta come una condizione per il cessate il fuoco.

Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono considerate come leggi internazionali. Hanno un forte valore morale e politico, anche se l’Onu non ha i mezzi per farle rispettare, a meno d’imporre misure punitive, per esempio le sanzioni, con il consenso di tutti gli stati membri.

Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu, ha detto che la risoluzione è in linea con gli sforzi diplomatici portati avanti da Stati Uniti, Qatar ed Egitto per imporre un cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi. Ha anche spiegato l’astensione con il fatto che gli Stati Uniti non ne approvano tutto il contenuto, innanzitutto la decisione di non condannare gli attacchi di Hamas del 7 ottobre.

Diversi osservatori sostengono che sia in corso un cambiamento sostanziale nel posizionamento di Washington, sotto pressione per limitare il sostegno a Israele in un momento in cui l’offensiva israeliana ha causato più di 32mila vittime a Gaza. La Casa Bianca ha smentito un “cambiamento di linea”, ma le ricadute dell’approvazione della risoluzione sono state immediate: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha subito annullato il viaggio a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere gli sviluppi dell’operazione militare nella Striscia di Gaza.

Secondo il giornalista di Haaretz Alon Pinkas, Israele sta facendo finta di essere sorpreso perché in realtà ha ignorato gli avvertimenti più volte lanciati da Washington: “Quando respingi le richieste degli Stati Uniti, liquidi il parere di un presidente, inondi il segretario di stato di propaganda infinita, deridi i loro piani, mostri sprezzo e intransigenza rifiutando di presentare una visione credibile e coerente per una Gaza postbellica e cerchi attivamente uno scontro aperto con l’amministrazione, c’è un prezzo da pagare”. Per Pinkas Israele si trova in una posizione molto scomoda “per qualunque paese, ancora di più per una democrazia, ancora di più per un alleato degli Stati Uniti”. E anche se sotto Netanyahu le relazioni con Washington si stavano deteriorando già da tempo, la risoluzione del Consiglio di sicurezza segna “un nuovo punto più basso”. 

Al Jazeera concorda sul fatto che la decisione degli Stati Uniti segnala la “crescente frustrazione” nei confronti di Netanyahu, ma aggiunge che “non è abbastanza”. Come hanno sottolineato diversi attivisti palestinesi per i diritti umani, serve un “ripensamento di fondo del sostegno di Washington a Israele, oltre il simbolismo e la retorica”. La vera questione, commenta Al Jazeera, è “se ora l’amministrazione Biden userà la sua influenza per spingere Israele a mettere fine ai suoi abusi contro i palestinesi a Gaza”, innanzitutto fermando l’invio delle armi e favorendo l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia.
Per ora la situazione sul terreno non sembra cambiata affatto. I bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza sono proseguiti nei giorni successivi all’approvazione della risoluzione e Netanyahu ha ribadito la sua intenzione di condurre un’offensiva di terra a Rafah, nel sud della Striscia, dove secondo le Nazioni Unite vivono ammassate quasi un milione e mezzo di persone, in maggioranza sfollati. I valichi terrestri, controllati da Israele, restano sbarrati e gli aiuti continuano a essere lanciati dal cielo. Il 26 marzo Hamas ha affermato che diciotto persone sono morte, dodici delle quali annegate in mare, mentre cercavano di recuperare gli aiuti umanitari paracadutati nella Striscia, minacciata da una grave carestia. 

Lo stesso giorno Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, ha presentato un rapporto che accusa Israele di aver commesso atti di genocidio a Gaza e chiede un embargo sulle armi inviate a Tel Aviv. Il rapporto sostiene che ci sono “motivi ragionevoli” per credere che Israele sta compiendo tre delle cinque azioni definite come genocidio: uccidere i civili, causargli gravi danni fisici o mentali e infliggere deliberatamente condizioni di vita intese a determinare la distruzione fisica della popolazione nel suo insieme o in parte.

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